«Scrivere mi ha salvato dalla distruzione»

L'autore dei "Melrose": "Cerco sempre una via di fuga dalla prigione dell'indottrinamento"

«Scrivere mi ha salvato dalla distruzione»

Firenze. «Non leggo mai le recensioni ai miei libri...». Non bisogna pensare che Edward St Aubyn, il più aristocratico degli scrittori britannici, stia esercitando una forma di snobismo. Al contrario, viso da bambino e velluto bordeaux da gentleman rilassato, rivela una forma di timidezza: «Non mi interesso a cose come la reputazione o la critica, non perché sia distaccato, anzi, è perché sono vulnerabile: e leggere di me e di quello che ho scritto mi può scombussolare, anche se si tratta di complimenti». Quanto sia stato ferito, e quanto sia stata scombussolata la sua vita - dagli abusi sessuali subiti dal padre all'indifferenza della madre, dalle droghe all'ipocrisia dell'upper class - Edward St Aubyn lo ha raccontato nei Melrose (un capolavoro diventato anche una serie tv di grande successo); nel suo nuovo romanzo, Doppio cieco, come sempre edito da Neri Pozza, veste invece i panni del letterato/scienziato. È stato a Firenze per presentarlo alla rassegna Testo.

Come si è avvicinato alla scienza?

«Mi interesso alla scienza già da tempo. Via d'uscita, che ho scritto negli anni '90, si occupa del problema della coscienza. La coscienza è l'unica cosa che sappiamo di avere e tutto il resto di ciò che conosciamo deriva da essa; eppure, la scienza non è stata capace di descrivere che cosa essa sia. Crediamo che la scienza sia la forma più alta e pura di conoscenza, ma ha fallito nel descrivere l'unica cosa di cui siamo certi... Così mi sono chiesto se ci fossero altri buchi nelle spiegazioni della scienza e ho lavorato su questo. Lo trovo inquietante e stimolante».

Che cosa?

«Il fallimento della scienza nell'includere la coscienza nella sua descrizione del mondo. E anche su altre domande che sorgono naturali, come quella sull'oggettività: significa davvero qualcosa, l'oggettività? O è la mia soggettività che incontra la tua e insieme formano un consenso? E ancora, qual è il prezzo che paghiamo per aver trasformato il mondo in un oggetto? E c'è una forma di alienazione che ne deriva, da questo essere distaccati dalla natura anziché parte di essa? Queste sono le domande che esploro nel libro».

Parla di tecnologie futuristiche, dalla genetica al neuroimaging.

«Anche qui torniamo al problema della coscienza, all'idea di poter scannerizzare il cervello delle persone e il loro stato mentale e di poterlo trasferire nel cervello di un altro attraverso una stimolazione magnetica. Questo è un modo particolare di trattare il cervello e la mente come identiche, e di ritenerle l'una dipendente dall'altro. Il romanzo si addentra negli studi cosiddetti fisicalistici della coscienza. Lucy ha un tumore al cervello, ma la sua mente è lucida: in un certo senso, oltre a combattere il cancro, combatte anche la visione fisicalistica della coscienza».

Quanto ha impiegato a scrivere Doppio cieco?

«Sette anni. Ho dovuto fare molte ricerche e poi a un certo punto non avevo più soldi e ho dovuto scrivere un altro libro che mi era stato commissionato... La follia di Dunbar».

La satira è tipica dei suoi romanzi. Che ruolo ha?

«Credo che la sua funzione sia di ridicolizzare il potere immeritato, per esempio quello nel mondo accademico, o quello che porta a sfruttare e umiliare altri esseri umani. Nei Melrose è il padre stupratore, fondamentale e terrificante. Lì c'è più satira, mentre Doppio cieco è pieno di persone in cerca dell'autenticità».

C'è meno ironia?

«Alla fine Patrick Melrose si chiede se abbandonare l'ironia, ovvero quando dici qualcosa ma intendi qualcos'altro, il che, nel suo caso, ha chiaramente delle radici psicologiche. Qui l'ironia è una visitatrice occasionale: c'è ma non è strutturalmente necessaria, come nei Melrose».

Ricompaiono le droghe.

«È difficile eliminare tutte le droghe insieme dalle mie opere... Le sostanze psichedeliche fanno parte del libro perché il modo più semplice per dissolvere la relazione fra soggetto e oggetto è prendere degli allucinogeni».

Ha preso droghe di ogni tipo dai 16 ai 28 anni. Come è sopravvissuto?

«Direi... smettendo di prenderle prima di morire. Il mio desiderio di scrivere un romanzo era più forte del mio desiderio di andare avanti a drogarmi. Un'altra presenza nel libro è la psicanalisi».

L'ha aiutata?

«La transizione dall'essere una persona distruttiva a una che vuole creare cose è avvenuta anche grazie alla psicanalisi. Parte del libro è stato prendere quelle cose che non potevo includere nei Melrose e celebrarle qui. In un certo senso è un romanzo sulla guarigione e la rigenerazione, fisica e mentale, dei protagonisti e della natura. E su questo non sono ironico: mi sto prendendo il rischio di dire qualcosa che credo sia importante e abbia un valore. Un rischio che non mi sono mai preso prima».

Patrick Melrose è lontano?

«Diciamo che sarebbe stato impossibile esplorare questo lato della vita all'interno dei Melrose. E finirlo mi ha aperto la possibilità di rivolgere lo sguardo a problemi e cose più generali, che non hanno solo a che fare con la mia storia personale. Dall'altro lato, c'è anche una continuità: sono sempre interessato a evadere. Scrivo perché mi sento in trappola e voglio trovare una via di fuga».

Da che cosa?

«Nei Melrose la trappola sono i condizionamenti famigliari e di classe, gli abusi, la dipendenza: questa è la prigione da cui evadere, per Patrick. Qui la prigione è la visione del mondo materialistica e quel tipo di alienazione e dualismo che genera. È diversa, ma è sempre un'evasione. Cerco sempre un modo per fuggire dalla prigione dell'indottrinamento».

Un modo è la letteratura?

«Sì. Nella mia storia, la scrittura stessa è l'evasione. Anziché uccidermi, per quanto sollievo trovassi nelle droghe, c'era qualcosa a cui tenevo di più. Una fortuna».

Come ha fatto a trasformare il suo dramma personale in letteratura?

«Credo sottostando alla forma del romanzo: non ho scritto un memoir o un'autobiografia, ho scritto un romanzo, che è una collezione di molti punti di vista; ed è questa molteplicità a trasformare quella che poteva essere soltanto una lamentela in un'opera d'arte. E poi essere un romanziere ha a che fare con la mia ossessione per lo stile: scrivere diventa fondamentale, per cui quello che racconti, anche la storia più terribile, diventa un piacere, un godimento estetico, che passa attraverso la bellezza, la risata, la precisione, la sorpresa... Ogni frase deve trasmettere un senso di piacere. Non ho scritto per me, ma per dare piacere al lettore».

Che cosa pensa del politicamente corretto che ha spinto

a riscrivere i romanzi di Roald Dahl?

«Non penso niente. È ovviamente il nemico della letteratura, della cultura e dell'intelligenza. Come tutte le censure. Perché non è che censura, anche se mascherata da virtù».

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