"Scrivere è da spietati perché bisogna tradire se stessi"

L'infanzia senza tv, l'arrivo a New York, gli anni difficili: l'autrice premio Pulitzer parla di sé e del suo romanzo "Mi chiamo Lucy Barton"

"Scrivere è da spietati perché bisogna tradire se stessi"

Sulla copertina del libro c'è il Chrysler, la meraviglia delle meraviglie di New York. È il grattacielo che Lucy Barton vede dalla sua finestra d'ospedale: bloccata da settimane a letto senza poter vedere il marito e le figlie, a un certo punto si sveglia e si trova davanti sua madre. È arrivata da Amgash, Illinois, con il primo aereo della sua vita. Non si vedono da anni. Per cinque giorni e cinque notti le due donne, madre e figlia, parlano e parlano. Non del loro rapporto, di amore ma difficile, non dell'infanzia di Lucy, segnata da povertà e abusi, ma degli altri: e Lucy è «felice, così felice». Questa è la trama di Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi), ultimo romanzo di Elizabeth Strout: nata nel Maine sessant'anni fa, bionda, apparentemente wasp perfetta, da anni vive a New York, ha pubblicato i suoi racconti sul New Yorker e ha vinto il Pulitzer nel 2009, con Olive Kitteridge (Fazi).

Ha detto che la letteratura deve avere a che fare con la verità. Di quale verità parla il suo libro?

«Spero che dica alcune cose vere sulla povertà, sul superare le divisioni di classe, come fa Lucy; e sull'amore per la madre».

Scrive senza sentimentalismo. Perché?

«Per me, il sentimentalismo è una emozione non guadagnata, è un modo a buon mercato di rivelare qualcosa. E io credo che tutto vada guadagnato, altrimenti non può essere vero».

Dipende anche dall'ambiente in cui è cresciuta?

«Era un ambiente puritano, il sentimentalismo... Oddio, non poteva esserci. Forse ce n'è stato solo un pochino, con mio padre».

Com'è stata la sua infanzia nei boschi del Maine?

«I miei genitori erano particolari. Mia mamma non credeva nella televisione, così non l'avevamo. Avevamo un pianoforte, dei libri. I miei avevano un'etica puritana del lavoro molto forte: mio padre professore, mia madre insegnante. Avevano idee molto rigide: per esempio, non c'è stato nessun film nella mia infanzia. Nel puritanesimo, tutto quello che eccita i sensi è guardato con sospetto».

Ma i libri eccitano i sensi.

«Non lo sapevano».

Quando ha iniziato a scrivere?

«Quando avevo 4 anni. Mia mamma mi incoraggiava, credo volesse fare la scrittrice».

Perché si è laureata in legge?

«Perché nessuno era interessato a pubblicare le mie storie. Dovevo guadagnarmi da vivere... Però ero un avvocato terribile».

Perché?

«Non ero per niente combattiva, non riuscivo a difendere nessuno. Così ho capito che potevo essere un avvocato terribile per tutta la vita, oppure provarci».

Sua mamma è orgogliosa?

«Sì. Ogni volta dice: Questo libro è migliore del precedente».

Quando si è trasferita a New York dal Maine ha sentito lo stesso disprezzo verso i provinciali di cui parla Lucy?

«Sicuramente ero una provinciale, ma non lo sapevo. Così non me ne sono accorta... Mi sono semplicemente innamorata di New York dal primo momento».

Che cos'è il Chrysler?

«Dice: guarda quello che gli uomini possono fare. Gli stessi che poi si distruggono l'un l'altro».

Senta, i suoi romanzi, il suo stile ricorda un po' Stoner...

«Oh grazie, grazie. Lo spero. Amo quel libro, per me è scritto in do centrale: il tono è così perfetto, essenziale. Un libro così vero, non c'è nulla di ostentato. Arriva dritto al cuore della questione».

Un problema centrale nel romanzo è il bisogno di un posto sicuro nel mondo.

«Sì. Dov'è casa? Dove sento di poter lasciare cadere tutti i miei fardelli? È difficile da trovare».

E poi, dice Lucy, c'è il fondo del barile...

«La parte peggiore di quello che siamo: perché ovunque, sempre, a tutti i livelli, le persone posizionano se stesse in modo da non sentirsi inferiori agli altri e allo stesso tempo da sentirsi superiori. Credo sia molto triste».

È vero, come scrive, che uno scrittore deve essere spietato? Ha mai tradito qualcuno con i suoi libri?

«Un po'

sì. Ma non le altre persone: è lo scrittore quello tradito, perché quello che scrivi viene da te stesso. Se fai bene il tuo lavoro, ti esponi. Noi dobbiamo dire le cose che le persone non dicono. E questo, sì, è spietato».

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