Damiano e Fabio D'Innocenzo, fratelli gemelli nati a Roma il 14 luglio 1988 e registi cinematografici, autori di La terra dell'abbastanza (2018), Favolacce (2020) e America Latina (2021), sono amicidel poeta Enrico Marià,e hanno scritto la prefazione alla sua nuova raccolta, La direzione del sole, edita da La nave di Teseo (pagg. 112,euro 16). Qui l'ho intervistano sui temi della sua poetica e sul suo modo di intendere la poesia.
Enrico Marià, sembra impossibile intervistare un poeta. A un poeta non si può chiedere niente, ci pare.
«Credo sia importante interrogare chi usa le parole. Gli si fa un favore, enorme, almeno nel mio caso. Mi si costringe a punti di vista a me inediti e inviibili».
Perché hai iniziato a scrivere?
«Per la paura di parlare ad alta voce. Per il timore di non avere nulla da dire e che, se dette a qualcuno, le mie parole sarebbero suonate stupide, vuote, banali».
Quando?
«La prima volta che ho scritto qualcosa fu alle superiori. Durante l'ora di inglese. Alcuni pensieri sulla fine, sulla voglia di darci un taglio con la vita e, a distanza di anni, tanti, me ne vergogno».
Cosa avevi provato?
«Sollievo e anche di questo mi vergogno».
Lo hai rifatto.
«Sempre per la paura di parlare. E per riprovare quel sollievo».
Cosa non perdoni a una tua poesia?
«Di non fare, in qualche modo, male».
Se non scrivessi quanti anni avresti?
«Sarei già morto. Scrivere non mi salva, ma mi tiene nel tempo. E senza le parole, se non avessi tirato le cuoia, sarei un quarantacinquenne di novant'anni».
Ciò che non sei mai riuscito a scrivere in una poesia.
«Il non traducibile, almeno per me, amore per mia madre, mio padre e mia sorella. In ogni caso, scriverlo, sarebbe una sconfitta. Quello, dopo i gesti, debbo dirlo a voce».
Quando e dove scrivi?
«Dove e quando posso. Con le bic più economiche sul retro bianco di fogli riciclati, che taglio, in fogli più piccoli, che possano stare in tasca».
Correggi mai le tue poesie?
«Sì, e se non mi imponessi di fermarmi, lo farei di continuo».
La tua stagione preferita?
«Purtroppo, da tempo, più nessuna in particolare. Da ragazzino, la primavera».
Se avessi incontrato qualcuno con cui non avresti avuto timore nel dire le tue parole, avresti mai iniziato a scrivere?
«Credo avrei iniziato lo stesso prima o poi a scarabocchiare fogli. Primo, perché vi è un qualcosa che non mi riesce di dire a voce. Secondo perché ho fatto parte di un gruppo musicale. E lì era il posto ideale per tentare le parole. Eravamo in tre a guardarci le spalle a vicenda. Finito il gruppo ho continuato a scrivere come se il gruppo vi fosse ancora. Dopo è arrivata la prima casa editrice indipendente che faceva blocco con l'omonima libreria di Genova. Libretti stampati in proprio e tenuti insieme dalle graffette di una pinzatrice».
Meno si incontrano persone, più si decide di scrivere, che è l'unico modo per avere una conversazione in cui sei sia colui che domanda che colui che risponde, un'inevitabile cosa violentissima.
«Io sono una persona violenta, che, per scelta, non commette violenze. Cui piace stare in silenzio a guardare e ascoltare gli altri».
Quale è stato il tuo più grande spavento?
«Ero alle medie, un pomeriggio d'inverno, arrivato a casa le luci accese, ma mia madre non rispondeva al citofono e la vicina non sapeva nulla di dove fosse. Il sentimento della sua perdita improvvisa mi scosse come mai nulla prima, nonostante avessi visto, passato e vissuto già parecchie atrocità».
Quante volte ne hai scritto?
«Non ne ho mai scritto ed è la seconda volta che ne parlo».
Quale è la tua più grande paura?
«Morire. E la morte dei miei cari. Morire e non lasciare neppure una piccola scia d'acqua».
La tua più grande felicità?
«La felicità dei miei cari, su tutti di mia madre e di mio padre».
Quale è la persona che legge le tue poesie?
«Da qualche anno mia madre. Lei non ha finito le elementari, a 13 anni era dietro il bancone di un bar a lavorare, a meno di 30 entrambi i suoi genitori erano morti e aveva già due figli. Lei ha gli occhi, il cervello, l'anima, il cuore del cuore. Non la freghi, se manca il sudore e il sangue, ti scopre. E si arrabbia».
La poesia che devi ancora scrivere.
«Vorrei essere capace di un testo d'amore privo di pudori».
Sei fortunato perché vivi in un mondo dove la parola conta ancora molto.
«Sono fortunato perché, nella vita, mi è stata data una seconda e poi una terza occasione».
Cosa non sopporti delle tue poesie?
«Tanto mi è insopportabile. E rileggerle è dolore e fatica. Però l'imperfezione, l'imperfezione dei pezzi, le mie infinite imperfezioni sono un qualcosa che mi dicono e mi dicono, almeno, sincero».
La selezione delle tue poesie per questo nuovo libro.
«La scansione temporale di un brutto periodo, un lungo momento che non pensavo mi avrebbe visto sopravvivere. E poi la severità, quasi marziale, nei miei confronti e, di conseguenza, e a cascata, sui miei gesti».
Le parole o l'amore?
«Entrambi. Sono una brutta persona, sono cattivo, faccio brutti pensieri e vorrei non dover scegliere».
Leggi ad alta voce le tue poesie? E se sì, con quale voce? La tua o quella di un altro? La tua o di un ricordo?
«A volte. Quando sto male. Prima, invece, mi riusciva di leggere anche al telefono o, privatamente, davanti a creature cui tenevo. Ora, però, non ne sono più in grado».
Il primo ricordo legato alla scrittura.
«Le file di lettere che mi faceva fare mia madre per non giungere impreparato alle elementari».
Il primo ricordo legato alla morte.
«Sono a letto, nella pseudo camera che divido con mia sorella. Arriva una telefonata. Risponde mia madre, l'ospedale dice che è morta la madre di mio padre. Io non sento la frase sul decesso, ma intuisco, fingo di dormire, ho quattro anni e sto male».
Il primo ricordo.
«Io che cado da uno scalino, poi il buio».
L'ultimo ricordo legato alla morte.
«Domenica è morto mio cugino di primo grado. Era in coma da inizio mese. Si era sentito male a Misano dopo la gara del moto mondiale. Non è un ricordo, ma la presenza della morte viva».
L'ultimo ricordo legato alla scrittura.
«Nessuno».
Il tuo rumore
preferito.«Il camion che solleva la mattina presto i bidoni della spazzatura, tutta quella breve sinfonia. Poi ogni tipo di elettrodomestico, in particolare l'asciugacapelli: mi ricorda che mia madre era in casa».
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