La gente non sta più nella pelle. Sorge infatti il sole sul «sabato di L&G», dove L&G vuol dire Libertà & Giustizia, la chicchissima e doviziosa lobby (con l’incasso della patrimoniale pagata, a prossimo governo della sinistra, dai suoi soci e aderenti, si tireranno su un tre-quattro punti del Pil) che ha montato l’ambaradam per reclamare «la dignità delle donne». E le dimissioni del Cavaliere, calpestatore, oltre che della suddetta dignità, anche dei valori sinceramente democratici. Molti calcheranno il palco del Palasharp, ma i riflettori saranno tutti puntati non, come si potrebbe pensare, su Roberto Saviano, personaggio un po' logoro e inflazionato, ma su quella vecchia gloria, su quel Grande Revenant di Oscar Luigi Scalfaro. Il quale ha già mandato a dire che la sua sarà una testimonianza di freschezza affinché «la democrazia vinca sull’anti-democrazia e sulla distruzione dei valori fondamentali su cui è risorta la libertà in Italia alla caduta della dittatura fascista con la guerra di liberazione».
Un concetto mai udito prima, una novità, una ventata di giovinezza intellettuale questo inedito richiamo al fascismo e alla guerra di liberazione. Quando si dice agilità di pensiero è al suo, suo di Scalfaro, che è obbligo riferirsi. L’emerito, dunque, sarà il madonno pellegrino di questo «sabato di L&G» e non potevano certo scegliere un testimonial migliore, più azzeccato. Sulla difesa della dignità della donna, dà dei numeri persino alla Concita De Gregorio. Egli infatti fu protagonista di un bel gesto, dalle donne assai apprezzato. Fu quando in un assolato mattino dell’estate romana, scorse al tavolino del Caffè Doney di via Veneto una signora in abito che la lasciava sbracciata. Scalfaro le si fece sotto e dopo averle sibilato: «Si componga, svergognata!» le mollò chi dice uno sberlone e chi uno scapaccione. Si fece poi notare, sempre in tema di dignità della donna, al tempo dei referendum sul divorzio. Ch’egli vedeva in forma di cloaca dove avrebbero sguazzato le donne senza virtù che inseguendo solo l’immondo piacere mordevano il freno del vincolo matrimoniale.
Come garante della correttezza istituzionale, poi, Scalfaro si rese famoso col suo tonante «Non ci sto!» alla richiesta di render noto dove erano andate a finire le paccate di denaro, contante e frusciante, che in qualità di ministro dell’Interno riceveva dai Servizi ogni mese. E che proprio per l’ambigua, forse anche equivoca natura del malloppo i suoi predecessori o avevano rifiutato o avevano messo a bilancio. Lui no, lui li intascò tutti, dalla prima all’ultima lira così com’erano: cash. Quando gliene chiesero conto, era già intronizzato al Quirinale, s’arrabbiò pure. E con il «non ci sto!» mandò tutti a quel paese. Sul senso della giustizia, che nella griffe del comitato organizzatore fa pendant con la libertà, non ne parliamo. Oscar Luigi Scalfaro se ne fece paladino fino alla morte. Di Enrico Vezzalini, di Arturo Missiato e altri tre imputati per i quali chiese - in veste di pubblico ministero «volontario» alla Corte d’assise straordinaria - la condanna alla pena capitale. Dura lex sed lex, si giustificò. Sì, però di lì a qualche mese le Corti d’assise straordinarie (e il codice di guerra che contemplava appunto la pena di morte) sarebbero decadute. Un cavillo per ottenere il rinvio della sentenza l’avrebbe trovato anche uno studente del primo anno di giurisprudenza. Scalfaro no. Pollice verso e avanti un altro.
Questo è dunque il campione che con la sua alta statura morale darà l’impronta civile e democratica alla sarabanda in programma oggi. Questo il pifferaio che farà danzare la rumba all’elegante e tremendamente «impegnato nel sociale» popolo del Palasharp. Ci sarà un sacco di bella gente, come alla prima della Scala.
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