Se l'antifascismo immaginario è una vera carriera (redditizia)

L'Italia è piena di "dissidenti". Una farsa offensiva per chi ha combattuto davvero

Se l'antifascismo immaginario è una vera carriera (redditizia)
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Antonio Padellaro avrà da qualche parte nella sua libreria delle memorie perdute, e poi recuperate, un vecchio libro irriverente di Vittoria Ronchey, Figlioli miei, marxisti immaginari. È un pamphlet del 1975 e racconta le peripezie di una professoressa bergamasca in un liceo della periferia romana. È l'incontro con i ragazzi di allora, tutti pronti a giocare alla rivoluzione, con un bagaglio ideologico pieno di frasi fatte, di idee scritte e copiate male, di menzogne e finzioni che hanno lasciato sulle strade sangue vero. È una stagione che Padellaro ha vissuto e, senza rinnegarla, negli anni ci avrà fatto i conti, con il distacco e il disincanto di chi ha smesso di innamorarsi dei suoi vent'anni. Quante cazzate, e corbellerie, si fanno a quell'età. C'è chi si sentiva un eroe a tempo perso, chi assaporava il potere, chi seguiva l'onda, chi odiava suo padre e chi un padre non l'aveva, chi si vestiva da Che Guevara, chi semplicemente sperimentava l'arte di amare. Quegli anni sono stati l'ubriacatura, come la prima sbornia, della generazione novecentesca che ha dipinto con il colore rosso l'invenzione della gioventù, ereditandola per beffarda contrapposizione dai reduci più arditi della prima guerra mondiale. Sono diventati i giovani eterni, praticamente incapaci di accettare la vecchiaia, ma non contenti di questo hanno diffuso questo gioco surreale a pezzi di generazioni successive.

È da lì che arriva la stessa mistura, che diventa rancida con il passare degli anni. È un vestito da indossare per sentirsi migliori. Antonio Padellaro ne racconta paradossi e personaggi in Antifascisti immaginari (PaperFirst). Sono quelli che denunciano in televisione l'imminente fine della democrazia, con quelle pose alla Matteotti che finiscono per svilirne la memoria. Sono i dieci intellettuali e giornalisti che, secondo Saviano e con tanto di gesto del mortaio, il regime sta pestando duro. E ti chiedi con preoccupazione chi sono, dove stanno, in quale garage olimpo sono finiti, e cosa fare per aiutarli. L'unica certezza è che tra quei dieci di certo non c'è Saviano. Sono le facce da Ventotene - disegnate da Travaglio nella prefazione - che dal salotto di casa annunciano il ritorno del fascismo, emaciate e dolenti. È l'Italia delle chiacchierate su La7, quella che recita l'antifascismo come fosse una parte a teatro, l'Italia che sogna il ritorno del nemico per sentirsi viva.

Questo antifascismo di maniera rischia alla fine di dare un'idea annacquata del fascismo. È una fiction. Si parlava di fascismo eterno già con Berlusconi, che per tre volte ha lasciato Palazzo Chigi, due volte sconfitto da Prodi, la terza con il foglio di via del presidente interventista Napolitano. Ora il fascismo eterno è quello di Giorgia Meloni. Ma davvero il fascismo è questo? Sinceramente, non regge neppure il paragone con Orbán. L'Italia, con tutti i suoi difetti, è una democrazia liberale. Non vederlo è da mitomani. Il fascismo fu una dittatura reale, non immaginaria. Lo fu non solo per quelli che il regime ha assassinato, i Matteotti, i Gobetti, i fratelli Rosselli, gli Amendola e la lista è lunga. Lo fu per chi finì in carcere o al confino per le sue idee. Lo fu per la morte prima civile e poi nei campi di sterminio per gli ebrei, per i rom, per i dissidenti. Lo fu anche per chi semplicemente non poteva più lavorare senza la tessera del partito fascista. Fingere di vivere sotto un regime quando si è in democrazia non è solo falso. È una farsa irrispettosa per i veri antifascisti. È una pagliacciata della memoria.

Padellaro per sverniciare tutto questo parte da un luogo sacro: la cella di via Tasso dove fu rinchiuso Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Lì dentro non c'è una metafora, c'è la carne viva del sacrificio. Montezemolo era un ufficiale monarchico, veniva dalla guerra in Africa e dalla guerra di Spagna, ma dopo l'8 settembre diventa il comandante del Fronte militare clandestino. Viene catturato, torturato e ucciso alle Fosse Ardeatine. Un eroe dimenticato. Un partigiano con le stellette. Uno che ha scelto, che si è ravveduto, che ha saputo trasformare il dubbio in coscienza. Padellaro lo visita e in quel silenzio oscuro trova la misura. Da lì comincia la sua invettiva contro l'antifascismo immaginario, quello finto, ipocrita, quello che occupa lo spazio pubblico con la puzza del moralismo. Ricorda come Giampaolo Pansa è stato flagellato dalla sua sinistra come eretico solo per aver raccontato i crimini commessi non solo dai vinti ma anche dai vincitori.

La farsa diventa infine grottesca a Lodi, quando spunta il «patentino antifascista» per affittare una sala pubblica.

L'antifascismo burocratizzato, normato, in versione modulo da firmare, non è più un valore: è un atto notarile. E non serve a difendere la democrazia, serve solo a garantire uno status, un'appartenenza, una superiorità morale.

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