Emily in Paris è una brutta serie. Ma perché continuiamo a guardarla?

Tutti ne parlano male e sembra non piacere a nessuno. Eppure la serie tv, arrivata alla terza stagione, è uno dei grandi successi Netflix

Emily in Paris è una brutta serie. Ma perché continuiamo a guardarla?

È davvero raro trovare qualcuno che non abbia visto Emily in Paris, ma è altrettanto raro trovare qualcuno che ne parli, se non in toni entusiastici, almeno bene. Arrivati alla terza stagione della commedia romantica targata Netflix, che a conferma del suo successo ne ha già confermata una quarta, l’elenco da stilare dei suoi difetti è lungo. Ma, nonostante sembri che tutti concordino sulla scarsa qualità dell’ultimo prodotto di Darren Star (già autore di serie cult come Sex and the City e Beverly Hills 90210), nessuno riesce a resistere alla tentazione di guardare la puntata successiva. Cosa c’è di così speciale?

La serie, come molti già sapranno, racconta la storia di Emily Cooper, 28enne di Chicago che viene improvvisamente spedita a Parigi per “portare un punto di vista americano” in una società francese di marketing per marchi di lusso, appena acquisita dalla multinazionale per cui lavora. Fin dalla prima puntata si notano i principali ingredienti della serie, spinti senza pudore fino alla terza stagione: l’estrema stereotipizzazione della cultura francese e di quella statunitense, chiaramente in contrasto, la trama priva di ogni tensione narrativa, irrealistica e prevedibile, e la rappresentazione totalmente inverosimile sia della vita della protagonista che di Parigi.

A Emily non succede mai nulla di davvero drammatico e, spesso con estrema facilità, ottiene tutto quello che vuole, in un susseguirsi di fortunate coincidenze. Vive in un appartamento bellissimo, sfoggia ogni giorno abiti di grandi marchi, frequenta i posti più alla moda della città ed è sempre circondata dalla crème de la crème della società francese. Tutti vogliono essere suoi amici o suoi amanti (i suoi pretendenti sono, nemmeno a dirlo, uno più bello dell’altro), incontra sempre le persone giuste e convince importanti aziende ad affidarle la loro strategia di comunicazione grazie ai suoi continui colpi di genio.

Come se non bastasse, diventa famosa su Instagram letteralmente con un click e, nella terza stagione, finisce addirittura sulla copertina della rivista di cultura di Le Monde come una delle persone più influenti di Parigi. Persino gli aspetti più apprezzabili di Emily, la sua positività, la sua esuberanza e la sua intraprendenza, sono guastati dal loro sfociare poi in sprovvedutezza, arroganza e opportunismo, dal momento che la protagonista non si fa alcun problema a sfruttare chiunque e qualsiasi cosa le giri intorno per siglare un nuovo contratto.

Ma sono proprio gli elementi più irritanti di questa serie a decretarne il successo globale. Emily in Paris è rassicurante. È costruita ad hoc per confortare, per permettere allo spettatore di spegnere il cervello e illudersi che sì, la vita può essere così, smagliante e priva di problemi che non si possano risolvere nel giro di una puntata di 30 minuti. Il ritmo è veloce e scorrevole, i toni sempre leggeri o al massimo melodrammatici e l’estetica domina ogni scena. Non solo perché gli attori sono tutti bellissimi e vestiti alla moda, ma perché sullo sfondo c’è sempre Parigi che, diciamocelo, esercita inevitabilmente un certo fascino. Così si divora un episodio dopo l'altro, immersi in questa realtà ovattata che cattura pur non generando particolari emozioni.



E anche quando non si cede del tutto a questa narrazione, che per molti potrebbe essere tutt’altro che confortante, la si guarda per divertirsi a prenderla in giro, per commentarne le assurdità sui social e con gli amici. Ma, in fondo, la si guarda con piacere, perché è proprio il suo essere imbarazzante (e il suo essere giudicata tale) a renderla irresistibile.

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