Shakespeare nella Hollywood del ’600

Una nuova monumentale (e minuziosa) biografia del più celebre poeta della storia, un uomo di teatro "totale": autore, comparsa, impresario... Che si trovò a vivere nella capitale dello spettacolo della sua epoca

Su Shakespeare se ne sono dette (e ancora se ne diranno) di tutti i colori. Ma il buon William, a dispetto delle fantasie di molti, ebbe una vita in bianco e nero, anzi, grigia. Perché l’intera esistenza, lui che in tema di fede religiosa fu reticente, se non proprio agnostico, la consacrò letteralmente al teatro, lasciando al resto le briciole. Del teatro fu umile comparsa e sublime autore, stimato protagonista e abile impresario, innovativo sceneggiatore e persino semplice rumorista. Da sempre, da subito. Da quando, nel 1569, a Stratford-upon-Avon giunse la prima strampalata compagnia a portare lazzi e battute urlate, mentre un bimbetto di cinque anni osservava a bocca aperta, fino a quando, poco prima di morire, il 23 aprile 1616, ancora si occupava, nume tutelare e munifico, dei suoi attori e delle sue rappresentazioni.
Emerson non sbagliava, dicendo che «Shakespeare è l’unico biografo di Shakespeare». Quasi tutti quelli che sono venuti dopo di lui, possono essere tutt’al più semplici commentatori o guardoni interessati al gossip e alle «leggende nere» che lo riguardano. Fra questi non è però da annoverare Peter Ackroyd, lo storico e fine letterato inglese autore di grandi affreschi su Dickens, Chaucer, Blake, Turner, More... In Shakespeare. The Biography, che in italiano, per Neri Pozza (pagg. 670, euro 50, traduzione di Chiara Gabutti), si avvale del più umile articolo indeterminativo «una», Ackroyd si tiene ben saldo al giudizio-memento di Emerson e sciorina una narrazione che è un omaggio rigoroso alle fonti, quindi, per converso, un manifesto implicito contro le invasioni di campo o le elucubrazioni campate in aria sul Bardo. «Il biografo non dovrebbe mai lasciarsi sedurre dalla confortevole poltrona dello psicologo», scrive. Infatti le sirene dell’indagine psicologica, certo affascinanti ma destinate a indirizzare verso strade sbagliate, non fanno perdere la bussola al suo lavoro da certosino.
Nel libro di Ackroyd troviamo insomma quello che potremmo definire il canone biografico di Shakespeare, senza improvvisazioni che ne violentino il copione. Scopriamo che Will era sempre al lavoro. Dei 52 anni che visse, quasi 40 furono di piena attività, dopo un percorso scolastico lungo quanto si conveniva a un figlio di buona famiglia, con un padre guantaio e notabile della cittadina d’origine e una madre eccellente conduttrice delle sorti familiari.
A 16 anni, il Nostro calca già i palcoscenici della formicolante Londra elisabettiana che contava duecentomila abitanti, e intorno ai 22-23 ha già scritto opere che resteranno nella storia. Buon lettore di autori contemporanei e antichi (le Metamorfosi di Ovidio e le Vite parallele di Plutarco sono i principali filoni per la sua miniera di personaggi), è soprattutto un grande osservatore. E, come tutti gli osservatori, ama restare in disparte, fedele al basso profilo anche quando intorno a lui infuria la peste, o il popolino fa sentire la propria ostilità alla gentry, o qualcuno mugugna, insoddisfatto dell’eccessiva rigidità della regina e dei tentennamenti di re Giacomo. «Il talento si forma nella quiete, ma il carattere nella grande corrente del mondo», diceva Goethe. E quale migliore corrente di quella che anima Londra, dove accanto ai teatri all’aperto fioriscono i bordelli, dove a ogni angolo di strada, se guardi bene, puoi trovare uno Shylock o un Lear, un Coriolano o un Amleto, magari ubriaco di birra? William vede, ascolta e registra tutto, poi torna a casa e mette su carta il succo della città-mondo. «Lingua di miele» lo chiamarono per la sua capacità di blandire l’ascoltatore, di trasportarlo ovunque lasciandolo lì dove aveva il privilegio di essere, sborsando la bellezza di un penny. Nulla di originale, in lui, tutto si trovava già altrove. Secondo Eliot «i cattivi poeti prendono a prestito, mentre quelli buoni rubano». E Shakespeare era un grande poeta che non ha inventato nulla, ce l’ha soltanto ricordato. Ackroyd parla di «processo continuo di autodistillazione», afferma che «Shakespeare non fu immediatamente shakespeariano». Dovette prima confrontarsi con colleghi molto diversi da lui, primi fra tutti il «maledetto» Marlowe e il cattedratico Jonson, e poi sublimare la realtà quotidiana in narrazioni fatte per essere «improbabili, perfino impossibili».
In quella specie di Hollywood che sorgeva, fra XVI e XVII secolo, in riva al Tamigi, fra attori e autori a braccetto nelle taverne dove sbevazzano e abbozzano progetti e con un pubblico che non fa credito ma vuole tutto e subito, spinto dai sotterranei e primordiali impulsi belluini di una società dello spettacolo che è insieme festa di strada e arte circense, evento mediatico fertilizzato dal passaparola e dalla ricerca di uno share almeno sufficiente a restare in cartellone un paio di settimane, chi sbaglia una mossa viene tagliato fuori, esce dal circuito.

Il drammaturgo-imprenditore Shakespeare, fra un Enrico e l’altro, fra i motteggi delle allegre comari di Windsor e i tormenti di Amleto, dando un colpo al cerchio dell’eros e uno alla botte delle ragioni del cuore, senza lanciare messaggi o invettive, dribblando la censura del Master of the Revels, ce l’ha fatta a sopravvivere giungendo fino a noi. «I suoi personaggi più interessanti sono, in fondo, attori», riflette Ackroyd. Parlandoci del teatro facendo teatro e, secondo Tolstoj, senza dirci niente, William ci ha restituito, misura per misura, la nostra vita.

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