Vittorio Emanuele Parsi è professore di Relazioni internazionali nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Dal 2002 insegna anche nella facoltà di Economia dell'Università della Svizzera italiana di Lugano. Ed è anche direttore dell'Alta scuola di Economia e Relazioni internazionali. Ha tenuto conferenze e seminari in numerose università in Italia e all'estero, tra cui Princeton e Oxford. Tra i molti volumi che ha pubblicato spicca il titolo del più recente: Il posto della guerra. E il costo della libertà (Bompiani, 2022). Abbiamo riflettuto con lui su come il rischio di un conflitto mondiale sia tornato ad essere presente nel nostro immaginario collettivo e non solo.
Professor Parsi, con lo scontro in Ucraina siamo davvero di fronte a qualcosa di diverso, o, in un certo senso, è una riedizione della Guerra fredda che non si era mai chiusa? Il rischio di un conflitto mondiale si è ripresentato?
«Di certo siamo in una fase nuova perché c'è un fatto. E il fatto è la guerra. La guerra è il game changer più grosso che si possa incontrare in politica internazionale. Qualcuno ha scelto di ricorrere alla guerra per modificare lo status quo in assenza di qualsiasi puntuale pericolo o minaccia o disordine. Semplicemente come scelta a freddo, razionale, costruita. Siamo oltre la Guerra fredda. Quella si basava sul fatto che nessuno avesse un interesse a modificare i confini. Qui la logica si è invertita».
Però la Guerra fredda, a tratti, è stata anche calda. Pensiamo al Vietnam o alla Corea...
«Il conflitto si scaldava solo in aree dove i confini non erano chiari. Poi il Vietnam era per certi versi un caso a parte. A lungo lo si è letto come lo sta leggendo lei però in fondo, se lo guardiamo con un'altra ottica, era solo la continuazione della lunga guerra di indipendenza vietnamita. E la guerra di Corea Mosca l'ha subita, è stata coinvolta. In questo caso Mosca l'aggressione l'ha pianificata, è ben diverso».
In questo schema nuovo possiamo allora trovare delle tracce, mutatis mutandis, delle dinamiche che hanno portato al Primo o al Secondo conflitto mondiale?
«Ci sono delle similitudini marcate con la Seconda perché abbiamo a che fare con un feroce dittatore che mente in maniera sistematica, che usa le minoranze etniche, in questo caso russe, per avere la scusa per autorizzare interventi militari contro i propri vicini, e agisce ogni volta dicendo che sarà l'ultima iniziativa militare e poi invece prosegue. Il livello sistematico e deliberato di distruzione che porta avanti la Russia non trova paralleli con fatti recenti».
E rispetto alla Grande guerra?
«Lì la similitudine maggiore la vedo negli errori strategici e di valutazione commessi dai russi. Hanno compiuto un errore di calcolo e cercano di correggere l'errore con un aumento dell'uso della forza. Non è la lezione giusta ed è chiaramente pericoloso. Non è un lesson learning questo. E poi come nella Prima guerra mondiale dobbiamo prendere atto che la costruzione di una rete di scambi mondiali non basta a stabilizzare i rapporti tra nazioni. Non basta».
E invece una differenza?
«Per fortuna il mondo è fitto di istituzioni internazionali, sia regionali sia globali, che si basano sulle regole e sui valori delle democrazie e questo fa un'enorme differenza. Esistono la Nato e la Ue oltre all'Onu. E questo da manforte ai principi che le democrazie oggi difendono contro la Russia. Nel 1914 e nel 1939 non c'era niente di simile».
Dopo la Grande guerra le potenze vincitrici non hanno azzeccato la politica verso la Germania. Non si è fatto lo stesso con la fine della Guerra fredda e la Russia?
«In parte sì, in parte no. La Guerra fredda è stata una guerra non combattuta. La responsabilità della Nato quindi è molto più bassa, non c'è stata una pace cartaginese come quella imposta dopo la Prima guerra mondiale alla Germania di Weimar. L'Urss si è dissolta ma non era per nulla scritto. In Russia non c'è stato un vuoto di potere. Certo, abbiamo sbagliato pensando che il capitalismo sarebbe bastato a sistemare tutto da solo. E poi ricordiamocelo, Putin è al potere dal 1999. Da lì a poco sarebbe scoppiata l'enorme questione del terrorismo islamico, nel 2001. La priorità è diventata la lotta al terrorismo. E Putin su questo fronte si è offerto subito. Ed è avvenuto uno scambio. In politica questo è comprensibile. Il popolo americano guardava a quello. Dal 2006 le cose sono iniziate a cambiare ma la presa di coscienza è stata molto lenta per motivi economici. Adesso ci siamo risvegliati».
C'è anche un versante economico del riaccendersi dei conflitti. Le risorse polari, il Mar della Cina...
«Anche in Donbass c'è una questione mineraria rilevantissima. La pervicacia di occupare quelle zone anche distruggendole è legata anche a questo. La pressione demografica sul pianeta ci dice che le risorse saranno utili ma anche scarse. Nell'arco di trent'anni prepariamoci alla guerra per le risorse su Marte. Ma sotto resta la politica, è questo che abbiamo sbagliato».
Siamo concentrati sull'Ucraina ma ci sono altre zone dove potrebbe innescarsi un'escalation che porti a un conflitto mondiale?
«Se la Russia dovesse prevalere in
Ucraina possiamo firmare adesso che ci sarà una corsa verso il conflitto a Taiwan. Quindi è fondamentale mandare il messaggio giusto a tutti, oltre che difendere un principio su cui non ci possono essere compromessi...».
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