Il Sol Levante di Bouvier è un regno di albe e tramonti

Lo scrittore, fotografo e giornalista soggiornò a lungo nel Paese asiatico. Registrandone magie e contraddizioni

Il Sol Levante di Bouvier è un regno di albe e tramonti

Cronache giapponesi di Nicolas Bouvier (1929-98) uscì per la prima volta in francese, e col titolo al singolare, Japon, nel 1967, con un'appendice fotografica. Una seconda edizione, con pagine del diario giapponese scritte in occasione di un soggiorno successivo, fu pubblicata un decennio dopo. Una terza, anch'essa ampliata negli anni '80, è quella coincidente con la recente edizione italiana (Feltrinelli, pagg. 235, euro 18, traduzione di Paola Olivi e Beppe Sebaste).

Il primo contatto con il Sol Levante, Bouvier l'aveva avuto nel 1955 quando, venticinquenne, si era imbarcato su un piroscafo delle Messaggerie marittime, il Vietnam, come mozzo addetto alla stiva per compensare il prezzo della traversata... Dopo un decennio di «rieducazione americana», racconta, i giapponesi ne avevano avuto abbastanza e sentivano «la mancanza della loro vecchia cultura, quella europea, e in particolare quella francese, il popolo che aveva dato Renoir, Jean-Paul Sartre, Yves Montand, l'amore romance, e che aveva comunque - cosa che avvicina - perso la guerra prima di vincerla». Era per questa rinnovata passione che a ogni nave battente il tricolore transalpino «i giornalisti si precipitavano in massa per chiedere al commissario di bordo cosa avesse (qualunque cosa. Accademici, pregiudicati, poeti d'avanguardia) da mettere sotto i denti».

Quel giorno, davanti alla stampa, il commissario di bordo presentò sul ponte il giovane Bouvier «unto di grasso come una candela» e di cui ignorava tutto. In compenso, Bouvier del Giappone non sapeva niente, di là dalle «conchiglie giapponesi» intraviste da bambino «nel fondo di un bicchiere», i modellini della corazzate «più grandi del mondo», Musashi e Yamato, la Madame Butterfly cantata in italiano e qualche stampa, nemmeno ben impressa, di Hokusai e compagni. «I semplici e gli innocenti hanno le mani colme» riassume per dar conto della sua «verginità».

Ci resterà un anno, si industrierà a fare il fotografo e a scrivere per qualche giornale, si vedrà affidare un reportage sull'antica strada imperiale che collega Tokyo a Kyoto, sei settimane percorse a piedi. Nell'ottobre dell'anno successivo, questa volta da passeggero con cabina, s'imbarca sul Cambdoge che lo riporta in patria: è l'anno della crisi di Suez e della chiusura del Canale e Bouvier passa più di due mesi in mare. Arriva a Marsiglia a novembre. Un secondo soggiorno è, appunto quello del 1964: Bouvier si è sposato, ha un figlio di due anni, e un contratto per un libro, commissionatogli dall'editore Favrod per la collana «l'Atlas des Voyages». Lui lavora, la moglie dipinge e insegna francese, arriva un secondo figlio... Dopo un anno, moglie e bambini torneranno in patria, ma Bouvier resterà ancora qualche mese viaggiando da solo dal nord al sud del Giappone. Il terzo e ultimo soggiorno è del 1970, membro della delegazione svizzera all'Esposizione universale di Osaka. Partita la delegazione, si installa nella Casa internazionale degli studenti, a Kyoto, e, raggiunto dalla moglie, va in Corea del Sud e sull'isola di Cheju.

Fra un viaggio e l'altro, il Paese naturalmente cambia, come del resto è cambiato Bouvier, nomade stupefatto e trasandato all'inizio e poi via via viaggiatore con uso di mondo: «Le cose non combaciavano più con i ricordi. Apparentemente, solo l'imperatore, la bandiera, i tornei di sumo e l'odore dei water erano rimasti gli stessi». Ciò che del Giappone attira soprattutto Bouvier è la sua storia di aperture e chiusure che ne punteggiano i secoli e che fa un po' da introduzione alla sue Cronache giapponesi. La genesi degli antichi miti nazionali, la fondazione dello Stato, i primi scambi con la Cina, la vita di corte, l'arrivo dei naviganti portoghesi e olandesi, l'evangelizzazione cattolica prima accolta con entusiasmo e poi repressa in tutto i Paese. Se ancora fra Cinque e Seicento, l'epoca delle esplorazioni e delle predicazioni, Europa e Oriente si annusano, si prendono le misure e si innamorano «senza capirsi», un editto imperiale del 1637 stabilisce che «nessuna nave giapponese, qualunque sia, è autorizzata a lasciare il Paese, e coloro che contravverranno a questi ordini moriranno... Tutti i giapponesi che rientrano dall'estero saranno immediatamente uccisi»...

Nel '700, osserva Bouvier, nel Vecchio continente c'è spazio per gli Incas e per gli ottentotti, per i «Buoni selvaggi», per i Cinesi e per i Mammelucchi: «Si trova di tutto, persino Confucio, il Socrate cinese. Ma non un solo giapponese. In questo periodo, trincerato dietro i suoi editti, la sua barriera di tifoni e di onde, il Giappone dei Tokugawa medita sul fallimento di un'impresa che era partita così bene, e trasforma lo Straniero in capro espiatorio o in spauracchio, giurando a sé stesso che non ci cascherà più».

A metà '800, i ruoli si invertono e sono le cannoniere dell'ammiraglio statunitense Perry a guidare le danze, seguito a ruota da russi, inglesi e francesi. È uno shock salutare e un impressionante ingresso nella modernità, anche se tinto di eternità. Shogun e samurai vengono spazzati via, il giovane imperatore Matsuhito inaugura l'era Meiji (cioè «del governo illuminato») che in cinque anni cambia il volto del Giappone e ne prepara il successivo espansionismo con la stessa ottica occidentale usata nei suoi confronti: industrializzazione e cannoni... La guerra vinta contro la Russia è il seguito di quella vinta contro la Cina, ma è ancora e sempre l'Occidente a decidere fin dove il vincitore può arrivare e cosa lo sconfitto deve accettare.

Popolo che ha sempre saputo coltivare l'arte del compromesso, quello giapponese è per Bouvier una continua fonte di meraviglia e di interrogativi. Nelle sue Cronache c'è spazio per il teatro No e per le prostitute del quartiere Shinjuku di Tokyo, per il buddismo Zen e per i templi buddhisti di Tokyo, per i racconti brucianti dei sopravvissuti di Hiroshima e per la gelida Hokkaido, dove i nativi Ainù dalla mattina sino al pomeriggio posano per i turisti con tanto di abiti tradizionali e poi, tornati a casa e indossati gli abiti occidentali, affollano bar e caffetterie. Hokkaido significa «via del mare del Nord», è l'isola più settentrionale dell'arcipelago giapponese: prima della Seconda guerra mondiale «era l'ultimo posto al mondo che i letterati giapponesi desiderassero visitare».

Qui, come nel resto del Paese, Bouvier cerca gli anziani, la musica, i rituali, ma si imbatte anche nelle nuove generazioni per le quali «straniero è un concetto ambiguo, di cui si può facilmente invertire il senso: di solito lo si circonda di attenzioni, non sempre spontanee», ma può essere anche occasione «di mille segreti risentimenti»...

Nella scrittura, così come nella fotografia, ciò che egli cerca di fissare è il contorno di un viso, il suo interno colore, atti rubati, un istante irripetibile di inquieta felicità, di dolce rassegnazione.

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