Soltanto Monica Vitti riusciva a rabbonirlo

Sul set di «Deserto rosso» bastò un sorriso della sua compagna per ridare la serenità al tormentato autore

Per me, vetusto ragazzo degli anni Sessanta, Michelangelo Antonioni era il Gran Vecchio della Montagna, l'ippogrifo, il Sacro Graal. Tutto ciò di leggendario, d'intangibile, d'inarrivabile che la mia febbre cinefila ci spronava a cercare nella vana caccia d'una preda ambita e insieme complicata. Eppure, in un pomeriggio d'incipiente primavera, a Milano, prima dalle parti di Corso di Porta Vittoria (via Corridoni), poi un po' più tardi in Via Senato (all'angolo con via Marina), ero lì, temerario e fortunato, a tampinare da vicino il «mostro», la Balena Bianca, il Leviatano - in una parola Antonioni - che, attorniato da una congrega di tecnici, attrezzisti, operatori, stava davvero girando La notte, sua nona pellicola incentrata su una storia tutta milanese animata dalla presenza allettante di attori di grido quali Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni e Monica Vitti.
Superfluo ricordare che, goffo e sprovveduto com’ero, non potevo certo accampare alcun titolo per immischiarmi in quel che «meravigliosamente» vedevo accadere sotto i nostri occhi. Io, comunque, pure patologicamente timido e paradossalmente determinato, decisi di seguire passo passo lo sviluppo delle riprese nonché degli spostamenti nei set successivi. Così, dopo l'infruttuoso appostamento in Corso di Porta Vittoria, ebbi la buona sorte, tra via Senato e via Marina, di assistere alle reiterate riprese della scena ove una fulgente, dolcissima Jeanne Moreau si sofferma per un attimo a guardare un posteggiatore che addenta un panino. L'uomo, imbarazzato dallo sguardo della signora, accenna un mezzo sorriso e fa il gesto di offrirle il proprio panino. Jeanne Moreau sorride a sua volta e riprende la sua «passeggiata all'infinito» per le vie del centro e poi via via nell'estrema periferia di Milano. Come si sa, è questo uno degli scorci più intensi, più poetici della Notte e noi, pur a millanta anni di distanza, a ragione o a torto, me ne sento partecipe, complice e quasi quasi «autore».
Ravenna 1963. Antonioni gira in piena campagna innevata come fosse la Finlandia il suo nuovo film, Deserto Rosso. Io frattanto, ormai praticante giornalista, sono già in caccia, benché tutto e tutti fossero già stati respinti dalla troupe - e in primis dallo scorbutico Antonioni - nell'intento d'impedire qualsiasi anticipazione sulle riprese. Io, pervicace e completamente ghiacciato da una trasferta rovinosa, approdo comunque verso sera nell'albergo-quartier generale del film Deserto rosso. Ancora nell'atrio scorgo Antonioni, allora tormentato da tic nervosi ininterrotti, che sta baccagliando con i suoi allarmati collaboratori. Scoraggiato, mi guardo d'attorno ed, ecco, mirabile e soccorrevole Monica Vitti, una nuvola bionda sorridente che mi tende persino la mano. Di lì a poco, rasserenato e ammansito dalla dolce Monica, Antonioni è davanti a me, cordiale e divertito da quel ragazzotto ostinato che vuol sapere il perché e il percome sta girando Deserto rosso.
In effetti, ebbi in seguito tant'altri incontri più o meno estorti, più o meno faticati con l'amato Antonioni. Memorabile, ad esempio, un incontro-convegno nella sua natia Ferrara (cui intervenne anche l'amico di sempre Tonino Guerra) ove ci misurammo in un'impari disputa sull'autentica origine (mantovana o ferrarese) dei ghiottissimi tortelli di zucca.

Eppoi, singolare fu anche l'occasione conviviale al Bagutta di Milano per festeggiare la prima del film americano Zabriskie Point nel corso della quale un pedantissimo Umberto Eco s'incaponì a spiegare al colto e all'inclita cosa fosse davvero quel posto infernale ov'era stato realizzato il film.

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