"Sono l'uomo con due facce come il mio Simpatizzante"

Lo scrittore americano, fuggito dal Vietnam da bambino, parla di sé, di storia e di famiglia

"Sono l'uomo con due facce come il mio Simpatizzante"

«Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce»: così si presenta il Capitano, nelle prime righe del Simpatizzante (Neri Pozza, 2016), il romanzo con cui Viet Thanh Nguyen ha vinto il Premio Pulitzer e che è diventato, oltre che un bestseller, una serie tv. Viet Than Nguyen, nato a Buôn Ma Thuot nel 1971, come il Capitano ha lasciato il Vietnam nel 1975, alla caduta di Saigon, per fuggire con i suoi genitori negli Stati Uniti. Un rifugiato, quindi. Che è diventato uno scrittore di successo, oltre che professore alla University of Southern California. Ed è proprio da questa ambiguità, come quella del Capitano, che nasce il suo memoir Io sono l'uomo con due facce (Neri Pozza).

Viet Thanh Nguyen, quindi è lei l'uomo con due facce?

«Sì. Il titolo viene proprio dalla frase con cui si apre Il Simpatizzante. Quello è un romanzo: non sono il Simpatizzante, ma ho preso i miei sentimenti, quelli di una persona che prova un senso di dualità, per il fatto di vivere ed essere cresciuto in due mondi, e li ho messi in lui. Ora, in un memoir, mi trovo a dover scrivere di me: perciò l'ho scritto come se fossi il personaggio del Simpatizzante che parla di me».

Perché sceglie costruzioni narrative così articolate?

«Il Simpatizzante e il suo seguito, Il Militante, sono dei romanzi, ma fingono di essere autobiografie o confessioni. Mi piace giocare tra fiction e non fiction: una confessione dà l'apparenza di essere la verità; in questo caso, il mio obiettivo è che un'opera di non fiction sia letta come un romanzo».

L'ambiguità si riversa anche nella narrazione?

«Sì. Questo memoir mostra come io mi senta molto ambivalente e ambiguo su chi io sia, sui miei studi, nei confronti dei miei genitori e per il fatto di essere un rifugiato vietnamita che è cresciuto e vive in America. Volevo parlare di questa ambiguità e, anche, esprimerla nel modo in cui il libro è scritto».

In effetti procede in modo dialettico: una contraddizione dopo l'altra, scava sempre più a fondo?

«È così. I miei libri sono dialettici, nel senso filosofico marxista ma anche nel senso che così sono i personaggi, incluso me stesso: procedono avanti e indietro, fra opposti, per cercare un nuovo equilibrio e, appena lo hanno trovato, emerge una nuova contraddizione. I miei personaggi cercano di vivere attraverso le contraddizioni: sia personalmente, sia come parte di una Nazione».

Che ruolo ha l'umorismo?

«Credo che, una volta che ci rendiamo conto delle nostre contraddizioni e di quelle della società o della Nazione in cui viviamo, possiamo anche accorgerci del fatto che spesso siano assurde: per esempio, un Paese afferma una cosa e fa l'opposto... E a quel punto possiamo piangere, arrabbiarci, ridere o fare tutte queste cose insieme. L'umorismo ci permette di fare satira sulle contraddizioni e ci aiuta a vivere con esse: è uno strumento politico e uno strumento di sopravvivenza».

E nel romanzo?

«Per il lettore è uno strumento per sopravvivere alla storia, che ha a che fare con delle tragedie, come la guerra e l'esperienza dei rifugiati».

Scrive che, a un coktail party, per troncare una conversazione basta presentarsi come «rifugiato».

«È così. Invece, quando io incontro altri che siano stati rifugiati, abbiamo molto di cui parlare. Per me è strano se una persona non ha una storia tragica».

Però i party la attraggono?

«Da uomo con due facce, ai party mi sento fuori posto: guardo me stesso attraverso gli occhi degli altri, e viceversa. Però allo stesso tempo il cocktail party è il simbolo di uno stile di vita che da bambino, come rifugiato, non avrei potuto osservare che da molto lontano».

Quindi è affascinante?

«Non avrei mai immaginato di potermi trovare fisicamente vicino ai famosi e ai potenti. Non voglio essere come loro ma, da scrittore, sono curioso di vedere come funzionino la fama e il potere, perché sono meccanismi molto importanti per capire come opera la nostra società».

Scrive di non voler essere un «rifugiato professionista» e neppure la «voce per i senza voce»: che significa?

«Non esistono persone senza voce, bensì persone ridotte al silenzio. Un'illustrazione chiara è data da ciò che accade a Gaza con i palestinesi. A volte, ad alcuni è data la possibilità di parlare, perciò ci si può chiedere: perché vediamo e sentiamo certe voci amplificate, e altre invece no? Quindi io non voglio essere una voce per i senza voce e neanche un rappresentante di qualcuno».

Eppure da scrittore...

«Da scrittore ho una voce, ma sono consapevole della tentazione, del fatto che ci siano dei gruppi che vogliono rendermi il rappresentante di una popolazione, o dei rifugiati: ebbene, io voglio resistere a questa tentazione».

E se - ennesimo dubbio - poi parla un altro al posto suo? Non è meglio parlare, allora?

«Ho a che fare con questa problematica. C'è un sistema in cui non è permesso a tutti di parlare contemporaneamente: perciò, da scrittore, devo cercare di usare questo meccanismo. Ma io non voglio essere una voce per i senza voce: voglio abolire le condizioni della assenza di voce».

Al centro del suo libro c'è la memoria; eppure non ricorda nulla del Vietnam, della guerra, della vostra fuga...

«Lo scrittore tedesco W.G. Sebald era nato durante la Seconda guerra mondiale, quindi non si ricordava nulla del conflitto; ma ha passato la sua intera carriera a scrivere di esso e a cercare di ricordare ciò che non poteva ricordare. Era stato formato da quella guerra: aveva assorbito una memoria di seconda mano dalla società tedesca, così come io l'ho assorbita dai miei genitori, dagli altri rifugiati vietnamiti e dalla cultura pop americana. Tutto questo mi ha reso quello che sono».

Quindi anche la guerra in Vietnam?

«Gli eventi che non abbiamo vissuto possono avere un grande impatto su di noi. Il libro è una esplorazione della mia memoria di ciò che i miei genitori hanno attraversato e delle storie trasmesse dalle vittime e dai rifugiati. Si dice che combattiamo due volte le nostre guerre: la seconda è nella nostra memoria».

Perché un'autobiografia?

«Mia madre è morta nel 2018, dopo una lunga malattia. Sono una persona che non piange molto: scrivere è il mio modo di pensare, combattere, essere in lutto e, anche, di salutarla. Ora sto scrivendo un libro su mio padre, che da dopo la pandemia ha avuto un rapido declino, e non mi riconosce più».

Il Simpatizzante è un noir; Il Militante abita a Parigi in Rue Lenoir, omonima al Boulevard Lenoir di Maigret: ama il genere?

«Moltissimo. E amo Simenon. In Rue Lenoir ho abitato per sette mesi. La letteratura francese per me è molto importante: il Viaggio al termine della notte di Céline ha avuto grande influenza sul Simpatizzante; Il Militante è ispirato a Candido di Voltaire; l'influsso di Balzac, Stendhal, Camus, Sartre e della tradizione francese di impegno politico ed esistenziale, oltre che quella anticoloniale, appare in tutti i miei romanzi».

E invece Groucho Marx?

«Ah ah. Sono cresciuto guardando i Fratelli Marx. Io dico che, in un'estetica della rivoluzione, servono una politica seria e un giocoso senso dell'assurdo. Il secondo non è efficace senza la prima; ma la prima, senza il secondo, è tragica, e lo abbiamo visto. Sono attratto dai rivoluzionari consapevoli e con il senso della giocosità».

Esistono?

«Emma Goldman, che diceva: non può essere la mia rivoluzione, se non posso ballare».

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