Nel 1930 Carlo Anti rilevava che «solo negli ultimi due decenni, era (stato) possibile il giusto apprezzamento dell'arte etrusca e quindi il suo rivalutamento di fronte alla greca, perché solo in tale periodo si era creato il clima necessario a quella rivalutazione, si era diffuso e affermato, attraverso lo studio del romanico, del gotico, dell'arte popolare e negra e nella pratica dell'arte contemporanea, quel gusto del primitivo che era alla base anche dell'etrusca».
È infatti nel Novecento che l'arte etrusca ottiene un'attenzione e una nuova fortuna critica, con nuovi scavi ed esposizioni, attraverso allestimenti museali e convegni. Tutto ciò consente agli studiosi di individuare le sue principali caratteristiche e fra queste l'allontanamento dall'ideale classico, tanto caro all'arte greca, quale prima peculiarità del linguaggio artistico degli Etruschi. Ad Anti faceva eco, sempre nel 1930, un eminente archeologo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, che scriveva: «L'artista etrusco, a differenza dell'artista greco, non ha mai avuto la preoccupazione di creare un archetipo di bellezza. Tende, prima di tutto, all'espressione. Cerca il carattere piuttosto che la bellezza, l'insieme espressivo piuttosto che la perfezione dei dettagli». Lucida e condivisibile intuizione. È per queste ragioni che molti artisti del Novecento ritrovano nelle suggestioni etrusche quella necessità di deformazione e di essenzialità che è propria dell'arte contemporanea.
Il progetto espositivo «Etruschi del Novecento» al Mart è la mostra della presenza degli Etruschi nella contemporaneità: non si tratta di un dialogo fra antico e moderno, ma della loro simultaneità nella dimensione dell'anticlassico. Tale dimensione si rivela, nei manufatti etruschi come nelle opere dei maestri del Novecento, nel ricorso a materiali poveri per realizzare la terracotta o il bucchero, nella preferenza a forme estremamente plastiche, a volte quasi distorte nel segno del grottesco, e nell'uso del graffito per incidere e disegnare alcuni tratti dei volti, allo scopo di rivelare alcune particolarità fisiognomiche dell'individuo. È dunque nella scorrettezza formale dell'arte etrusca rispetto al classicismo, nella sua declinazione espressionistica ante litteram che si rinvengono le maggiori corrispondenze con l'arte moderna, evidenti al confronto con le opere antiche scelte per il percorso degli «Etruschi del Novecento».
Il 19 maggio 1916, negli scavi dell'antica città di Veio (oggi nel vasto territorio di Roma Capitale), l'archeologo Giulio Quirino Giglioli rinveniva un importante gruppo di statue etrusche fra cui un Apollo, databile intorno al 500 a.C., e l'enigmatica testa di Mercurio/Turms, che oggi si può ammirare nelle sale del Mart. Nel 1920 Giglioli pubblica su Emporium un ampio articolo descrittivo che intitola dannunzianamente «Veio. La città morta», dove pone l'accento sul valore simbolico della sua scoperta, che interpreta come «un segno di speranza e rigenerazione per l'Italia appena uscita dalla grande guerra». Si tratta di una lettura condivisa da artisti e scrittori, come Aldous Huxley, che afferma come l'Apollo di Veio rappresenti il simbolo dello spirito di rinascita in quanto «meravigliosamente nuovo, splendidamente sano», ovvero «un dio che non ammette l'esistenza separata di esseri eroici e diabolici, ma che in un certo qual modo li include nella sua stessa natura e li trasforma in qualcosa di diverso». La iconicità dell'Apollo è tale che l'immagine viene scelta per la copertina del catalogo della prima mostra del Novecento Italiano (1926), nel 1927 campeggia nella cartolina pubblicitaria della III Biennale di Arti Decorative di Monza, quindi nel 1933 viene selezionata da Gio Ponti per la copertina del catalogo dell'esposizione Internazionale d'Architettura Moderna della V Triennale di Milano, e nel 1934 la ritroviamo nel manifesto della Biennale di Venezia realizzato da Marcello Nizzoli.
L'Apollo e l'Hermes destano meraviglia e curiosità in quanto «cose mai viste»: ibridi di bellezza e inquietudine al contempo, dagli anni Venti in poi, con l'incremento con cui vengono scavati nuovi siti e avviate nuove istituzioni di studio. Il loro mistero contribuisce ad avviare il dibattito relativo all'estetica etrusca. Che si intende dimostrare, attraverso la mostra, contemporanea. Si tratta di un progetto senza confini temporali, come è visibile nelle declinazioni espositive al Mart di Rovereto, e quindi alla Fondazione Luigi Rovati di Milano, senza la cui prestigiosa competenza non sarebbe stato possibile costruire questa importante occasione di studio, confronto e collaborazione; la sua disseminazione si estende anche al di fuori delle due sedi istituzionali, con l'intenzione di coinvolgere nel percorso due capolavori della scultura novecentesca, inamovibili per questioni di sicurezza conservativa, quali L'amante morta di Arturo Martini presso la sede del Fai di Villa Necchi Campiglio e la terracotta del Popolo di Marino Marini nelle sale del Museo del Novecento entrambe a Milano.
Alessandra Tiddia, conservatrice del Mart e, con Lucia Mannini, Anna Mazzanti e Giulio Paolucci, curatrice della mostra, ne indica alcune essenziali direzioni che si rivelano paradigmaticamente a partire dalla celeberrima Ombra della sera ma anche in opere più piccole, provenienti dalle ricche raccolte del Museo di Villa Giulia. Il parallelo visivo con le figure allungate di Alberto Giacometti è immediato per la sensibilità contemporanea, anche se è ancora da dimostrare se queste siano state realmente modelli d'ispirazione per lo scultore svizzero, che pure visitò la celebre mostra sull'arte etrusca del 1955 a Milano, così come sono noti i suoi appunti sulle pagine del catalogo della mostra. In mostra il memorabile bronzo di Giacometti, concesso in prestito dal Guggenheim di Venezia, rievoca questa suggestione visiva. Lo stesso vale per le chimere, di diverse misure, riproposte da Arturo Martini e da Mirko Basaldella, in un eterno presente.
La mostra affronta poi il tema delle ispirazioni etrusche in vari ambiti, che siano quello della moda o quello legato alla produzione di vasi, nel ricorso a varie forme e materiali come nell'esempio dei buccheri novecenteschi di Francesco Randone individuati da Lucia Mannini. È la stessa studiosa a precisare che i buccheri nella loro nera perfezione erano apprezzati da Gio Ponti in quanto validi elementi di arredo nella casa moderna, in particolare se disposti contro muri bianchi al fine di ottenere «una parete grafica sorprendente».
Come Randone anche molti altri artisti italiani, da Arturo Martini a Francesco Messina, a Marino Marini a Mirko Basaldella, nel corso del Novecento ricercano nelle forme peculiari della cultura etrusca valide ispirazioni per inventare un universo di oggetti nuovi, per ampliarne i modelli accordando loro un riconoscibile carattere di italianità.
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