Bello di fama e di sventura, torna alla Scala il tenore Brian Jagde: il 7 dicembre, nel ruolo di Don Alvaro, il protagonista dell'opera che apre la stagione. E la nominiamo dopo aver fatto i dovuti scongiuri, perché anche nell'era 5.0 e dell'IA, nel piccolo-mondo-antico del melodramma si crede che tale titolo porti iella. È La forza del destino di Giuseppe Verdi, opera piena di sciagure, massimamente concentrate nella figura di Don Álvaro: Pirandello lo avrebbe dotato di patente. Alvaro è innamorato di Leonora, ma prima uccide accidentalmente il di lei padre, quindi volutamente, per difesa, il fratello nonché futuro cognato Don Carlo.
Tutti muoiono, compresa l'adorata fanciulla, mentre lui vivrà: rassegnato alla forza ostile e ostinata, pur giustificata da un disegno provvidenziale. O almeno questo è il finale della versione n.2 dell'opera, che dopo il battesimo del 1862 a San Pietroburgo, Verdi rielaborò apposta per la Scala, correva l'anno 1869, e l'ombra di Manzoni è patente. Jagde (1980, New York) ben conosce gli affanni di Alvaro, ha indossato queste vesti al Met di New York, nei teatri di Parigi, Londra e in questi giorni di Barcellona. È arrivato a Milano solo settimana scorsa, a prove in corso, in sostituzione di Jonas Kaufmann, che ha dato forfait per La Forza mentre sarà presente venerdì prossimo per il concerto pucciniano, nell'anno di Puccini ma anche del suo ultimo cd Sony Puccini Love Affairs.
Jadge alla Scala ha cantato in Cavalleria rusticana e in Turandot, ha così colto al volo il prelibato last minute, mentre il tenore Luciano Ganci, già nel cartellone per le ultime tre repliche, sarà in panchina nonostante la cancellazione di Kaufmann. Jadge, ci spiega, ha «sempre cantato la versione del 1869, ma per la prima volta affronto l'edizione critica, che Chailly vuole sia seguita con sommo scrupolo. Tutto va fatto come scrisse Verdi, se è annotato dolce, si fa dolce, se è scritto con forza, si fa con forza. Canto da almeno cinque anni quest'opera, però sto scoprendo tante cose nuove». E se fino ad ora si è misurato vuoi con una regia ultra tradizionale «a Parigi e a Barcellona», vuoi con una regia moderna, «a Londra faceva da sfondo la seconda guerra mondiale», e ultra moderna al Metropolitan, a Milano «Muscato miscela passato, presente e futuro con l'obiettivo di far vedere che il destino è senza tempo, imperturbabilmente presente». Visione pessimistica? «Semplicemente realistica. Così vanno le cose» spiega Jadge, serafico.
Alvaro è di nobile schiatta, ma mulatto, «straniero di Leonora indegno», dice il padre di Leonora che perciò contrasta l'unione dei due, e le tragedie scaturiscono proprio da questo. Un meticcio escluso dalla società è pane per i denti della cultura della cancellazione di cui la Scala è scevra, per fortuna, mentre il Met, frequentato assiduamente da Jadge, ne è la roccaforte assoluta. Pungolato sul tema, il tenore è franco: l'opera deve muovere gli affetti e far riflettere, le storie si raccontano senza tagli e sconti. «In un museo, davanti a un quadro provi emozioni, che siano di gioia o di tristezza. Lo stesso accade quando assisti a uno spettacolo d'opera. Se vedi che la persona di colore è bistrattata, ne soffri. Se vedi Don Josè che uccide Carmen, stai male. Sono situazioni che fanno riflettere, accendono lampadine. Per questo le storie vanno raccontate così come sono».
Una lampadina s'accenderà sicuramente con l'aria in apertura del terzo atto, laddove Alvaro spiega le nobili origini
(mamma era «l'ultima degli Incas, di regale stirpe») e l'amaro destino: «Sarò infelice eternamente». E con questa Prima della Scala, l'evento culturale più mediatico d'Italia, si chiude il bisestile 2024. Incrociamo le dita.
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