
Jamaica Kincaid risponde dalla sua casa in Vermont: un cappellino sulla testa, lo sguardo su una distesa di narcisi. I Daffodils di William Wordsworth, una poesia che, come racconta lei stessa nel romanzo (quasi autobiografico) Lucy, che nel 1990 segnò l'avvio della sua carriera, è stata parte della sua formazione, quando era una ragazza ad Antigua. «Finora ho piantato circa venticinquemila narcisi - racconta - Ho iniziato nel 2004 e, da allora, cerco di piantarne mille l'anno. E fioriscono tutti, fino a ricoprire l'intero prato. È uno spettacolo, devo dire». Queste sono chiacchiere su zoom, ma anche no. Per due motivi: primo, esce ora, come tutti i suoi libri edito da Adelphi Passeggiata sull'Himalaya (pagg. 212, euro 14), il memoir di un viaggio nelle zone pedemontane del Nepal fino alla Valle dei fiori (nelle foto), a caccia di semi e bulbi, come gli incredibili papaveri blu, da trapiantare, appunto, nel suo prato in Vermont. Secondo, la digressione appartiene a Kincaid, come forma e sostanza delle sue opere.
Jamaica Kincaid, la sua scrittura ha un po' l'andamento di un fiume?
«Non è una scelta deliberata, ma è il modo in cui funziona il mio inconscio: un flusso che, a volte, diverge dal corso principale, per poi tornare indietro. È anche il modo in cui parlo: una cosa me ne ricorda un'altra, che a sua volta mi rimanda a un'altra ancora».
Questo le consente di andare sempre più in profondità?
«È esattamente così. La mia scrittura è stata influenzata, fra l'altro, dalla Bibbia, dall'Oxford Dictionary e dal paesaggio; e in esso accade che, a volte, mentre seguiamo un sentiero in montagna, questo si perda, per poi ritornare verso la sua linea centrale, dalla quale si diramano altri sentieri... Comunque io non ho la capacità di rendere le cose come un tutto, ordinatamente, anche perché non sono d'accordo che quello sia il modo in cui siano le cose stesse».
Come sono?
«Hanno molte sfaccettature, tutte vere e, spesso, contraddittorie allo stesso tempo. Se sono interessata a tre o quattro cose, per esempio, e sono tutte vere, ma in contraddizione fra loro, devo scegliere quella che più fa al caso mio; ma le altre non le elimino, le metto solamente da parte e, se necessario, le riprendo...».
Anche la verità cambia?
«Può non essere la stessa, sempre. Ma la verità è importante: lo vediamo oggi, credo, con un governo che mente, quanto sia importante. Perché senza verità non c'è giustizia e senza giustizia non ci sono né vita, né civiltà».
Tornando al sentiero iniziale, ovvero il giardino: perché è un luogo così speciale?
«Una delle grandi influenze sulla mia scrittura è la Bibbia di Re Giacomo. L'isola dove sono cresciuta è considerata un paradiso, ma solo da chi la visita come turista, non da chi ci vive. E in fondo il Paradiso che cos'è? Inizia con un giardino, in molte mitologie, ed è un luogo dove non esistono difficoltà: nessun pensiero, nessuna zanzara, nessuna ape anche se scorre il miele. È uno stato di morte, in realtà».
E come si vive in uno stato di morte?
«Ci si imbatte in problemi morali. Io sono interessata proprio a quella contraddizione fra la vita eterna nel giardino dell'Eden e il fatto di essere morti. D'altra parte, se ti occupi di un giardino, sei coinvolto in eventi anche meschini, come schiavizzare delle persone, o pagarle, o gestire delle complicazioni. Poi desideri raggiungere il paradiso ma devi morire, il che non è desiderabile: anche questa è una contraddizione che mi interessa. Sa, io voglio sapere tutto: sfortunatamente ho ancora la curiosità di una bambina».
Perché sfortunatamente?
«È seccante per le altre persone, che hanno fretta. Sull'Himalaya mi fermavo sempre e gli altri diventavano matti, perché sapevano già tutto, mentre io non sapevo nulla e continuavo a chiedere: che cos'è? Lo stesso mi è capitato sulle Dolomiti, dove cercavo il giglio nero e alla fine, quando l'ho trovato, ho quasi pianto. E poi è meraviglioso che Dolomiti derivi da questo francese, Dolomieu, che scoprì un nuovo elemento a cui attribuirono il suo nome: amo queste cose. Tutto ciò che incontro mi riporta a una storia umana».
Giardino significa anche casa e radici, in tutti i sensi?
«È tutto intrecciato. Casa è il luogo dove ti rifugi dal trambusto del mondo, una sorta di Eden; ma, stranamente, ho notato che la distruzione della Terra avviene spesso per produrre oggetti per la casa, come i mobili o gli edifici stessi. Una produzione in cui il colonialismo ha avuto un ruolo: pensiamo all'albero del mogano, quasi ridotto all'estinzione, perché le piante più grandi sono state tagliate per costruire belle case per gli uomini di potere. Ma anche il giardino stesso è espressione del potere».
Come?
«Avere dei fiori significa avere già da mangiare e, quindi, non avere la preoccupazione di coltivare qualcosa. D'altra parte, la bellezza non è inutile».
Uno dei temi della sua Passeggiata è: come tradurre l'esperienza del viaggio in letteratura?
«Ho letto moltissimi resoconti di viaggio, i giornali di bordo di Cristoforo Colombo, di Magellano, di James Cook, le persone che hanno creato il mio mondo: si vede come, oltre al desiderio di conquista, di possedere, di essere coinvolti in dinamiche di potere, ci fosse anche la paura, quella che molti viaggiatori trascurano».
Quale paura?
«Quella di uscire dai propri orizzonti. Ecco, quello che io volevo esprimere in questo libro era la paura: sull'Himalaya provavo sempre paura e un senso di meraviglia. D'altra parte, con quei viaggiatori come Magellano e Colombo, con le loro navi, ho una relazione complicata: di sicuro all'epoca sarei stata una di loro, avrei voluto salpare ed esplorare».
Il giardino è legato a sua madre?
«Moltissimo. Aveva un dono per piantare, il suo era un istinto naturale. Mia madre è morta nel 1999 e, l'ultima volta che sono andata ad Antigua, il banano che lei aveva piantato stava cominciando a dare i frutti. Quando fa i frutti, il banano muore, ma ne nasce un altro».
Ha perfino scritto una Autobiografia di mia madre: è centrale nelle sue opere?
«Sì. Mi portava ovunque. In Biografia di un vestito racconto i semi di me stessa, quando lei mi insegnava a leggere e scrivere prima ancora che sapessi dell'esistenza di un alfabeto. Non so chi sarei, senza di lei. Anche se è stato crudele da parte sua spedirmi in America a 17 anni, per farmi diventare una domestica; però poi io non sono diventata una domestica, sono diventata una scrittrice».
In Lucy dice che non la perdona.
«È vero, ho detto così. Però oggi direi che non importa perdonarla o meno: quello che conta è come fai i conti con le ingiustizie che ti sono state fatte».
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