«Ma vai all'Inferno!». Quante volte lo avranno mormorato fra sé, gli abituali frequentatori dei social, imbattendosi in un meme loro avverso (per posizione politica, gusti musicali, tifo calcistico e via simboleggiando)? Ebbene, in un certo senso proprio all'Inferno nacque il meme. Ma non in un Inferno qualsiasi, bensì nell'Inferno per eccellenza, quello di Dante. «Abbiamo persino individuato l'inafferrabile bosone di Higgs, la cosiddetta particella di Dio, e le onde gravitazionali. Ma la Commedia è sempre lì, davanti a noi, nel tessuto nervoso del nostro orizzonte culturale. È il supermeme che non ci stanca mai, che non ci basta mai». Con queste parole Lorenzo Montemagno Ciseri chiude il suo saggio Cerbero e gli altri. I mostri della Divina Commedia (Carocci, pagg. 139, euro 15). In cui dimostra come Il gene egoista, il saggio del biologo inglese Richard Dawkins datato 1976 in cui il neologismo meme comparve per la prima volta a significare l'unità di base dell'evoluzione culturale umana, e il... genio altruista Alighieri siano collegati da un sottile ma resistentissimo filo. Lo stesso filo che collega l'immaginario collettivo alle immagini e alle parole che lo alimentano, lo sostengono e, soprattutto, lo diffondono.
Nel settimo centenario della morte del Sommo, cade a fagiolo questa riflessione sulla sua attività di custode (proprio in funzione di Cerbero - ma con la c minuscola del senso figurato e, direbbero nella sua Firenze, «un poco più bellino dell'originale, via») della cultura di massa. Poche pagine prima, Montemagno Ciseri scriveva opportunamente: «come sosteneva uno dei primi memetisti di professione, Aaron Lynch, occorre un cambio di paradigma nel pensare al rapporto tra l'uomo e gli elementi culturali, poiché la cosa importante non è tanto sapere come un uomo si impossessi di un'idea, bensì come un'idea si possa impossessare di un uomo». E la sottolineatura serve a ricordarci quanto siano pericolose le idee quando, diventate ideologie, schiavizzano chi le alimenta, le sostiene e, soprattutto, le diffonde. Ma Dante era un poeta, non un ideologo (nonostante poi, tra due fazioni, anche lui ne avesse scelta una). Un poeta che, consapevole della complessità e della profondità della sua opera, voleva farsi capire bene dai lettori, disseminando nelle sue terzine molti link che rimandano a personaggi e situazioni (dunque a concetti) facilmente comprensibili.
E che cosa più dei mostri faceva parte dell'immaginario collettivo, nell'Italia del XIV secolo in cui Dante intraprese quel viaggio intellettuale senza precedenti? Oltre ai due principali «maestri di mostri», come li chiama Montemagno Ciseri, cioè Virgilio (il «duca» dell'Alighieri) con l'Eneide e Brunetto Latini con il Tresor, altri testi avevano alimentato la teratologia: dall'epopea di Gilgame all'Odissea, dalla Repubblica di Platone (nel libro VI) al Somnium Scipionis di Cicerone, dalle Metamorfosi di Ovidio alla Visione di San Paolo, dalla Visione di Tundalo alla Navigazione di San Brandano.
E che cosa più della catabasi, cioè della discesa negli inferi, poteva chiamare a raccolta la fauna mostruosa? Dante poi, era in «missione per conto di Dio» come i Blues Brothers, scherza (ma seriamente) l'autore del saggio. Quindi aveva campo libero. Dalle tre fiere piazzate all'entrata del suo clamoroso luna park infernale e nelle sue propaggini che si estendono al Purgatorio, fino al Grifone, i mostri della Commedia dovevano apparire, al pubblico dell'Alighieri, come oggi a noi appaiono i vari Hannibal Lecter, Freddy Krueger, Pennywise, il Pinhead di Hellraiser, il Jason Voorhees della saga di Venerdì 13... Addirittura, fra i serpenti del XXV canto dell'Inferno, ce n'è uno che si comporta esattamente come lo xenomorfo Facehugger in Alien di Ridley Scott. Ma il peggiore fra tutti, l'unico per il quale Dante spenda la parola «mostro», lo incontriamo nel Paradiso terrestre. È il carro della Chiesa che si trasforma nella Bestia dell'Apocalisse.
A cavallo del mostro con sette teste quanti sono i peccati capitali ecco un gigante, simbolo dei re, quindi del potere temporale, e una puttana che si dimena con gesti lascivi. Lei è la Roma papalina, ovvero il macigno più grosso che il Sommo si tolse dal calzare, l'atto d'accusa più pesante di tutta la sua Com(meme)dia.
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