Più passa il tempo e più Enrico Ruggeri riesce a raccontarlo meglio, scavando senza pregiudizi la propria generazione come un vero cantastorie. «Siamo un biglietto scaduto di sola andata» canta nel nuovo singolo La rivoluzione, che anticipa un album in uscita a marzo ed è il ritratto tranchant ma poetico di chi è nato negli anni Cinquanta e ora guarda indietro al ragazzo che era. Insomma, appena dopo aver (finalmente) vinto il Premio Tenco, Ruggeri guarda a chi come lui ha attraversato il Sessantotto, la contestazione, la nascita del punk e la gigantesca trasformazione delle speranze in utopie o delusioni. Come fece Giorgio Gaber, si guarda indietro e tira un bilancio.
Allora Ruggeri, anche la sua generazione ha perso?
«Diciamo che ha giocato belle partite, ha fatto un bel girone ma ha perso la finale».
Come avevate iniziato il campionato?
«Forse tutti, non solo noi nati a metà o alla fine degli anni Cinquanta, quando sono giovani sognano una rivoluzione e poi fanno i conti con il fatto che la rivoluzione totale non esiste salvo rarissime eccezioni come, magari, in Russia nel 1917. Abbiamo fatto una rivoluzione parziale».
Visto che è presidente della Nazionale Cantanti, ci faccia la formazione della sua generazione?
«Se penso alla mia generazione vedo direttori di banca, gente morta di eroina, ragazzi che sono passati dalla lotta armata alla Camera dei Deputati. Era una bella squadra in un girone difficile che però ha perso la finale».
Pochi però hanno la lucidità di riconoscerlo.
«Nel mio caso diciamo che invecchiare mi ha concesso il vantaggio di vedere con più distacco le cose che hai attraversato, che hai vissuto e per le quali hai parteggiato o creduto. Non a caso quando ho scritto in quella che è una sorta di autobiografia (Sono stato più cattivo, Mondadori 2017 - ndr) mi sono fermato al Duemila».
Perché?
«Perché ero nella fase in cui potevo valutare lucidamente la mia prima parte di vita, la passione, l'ubriacatura di successo, il denaro. Ma era ancora troppo fresco il periodo successivo, non ero abbastanza lucido per valutarlo e perciò ho evitato di scriverne, magari lo farò più avanti».
Tanti scrivono un'autobiografia a vent'anni.
«Credo che si debbano distillare le sensazioni e i ricordi del proprio passato per raccontarli davvero bene. Scrivendo canzoni, una delle mie grandi ossessioni è sempre stata di pensare a che cosa avrebbe pensato il pubblico ascoltandola dopo venti anni».
Quindi scrivere di temi troppo attuali oppure politici condanna una canzone a non durare nel tempo.
«Un argomento che mi appassiona da sempre, al punto che è stato persino il mio tema alla maturità. Credo che i grandi autori non vadano contestualizzati».
Ad esempio?
«Per capirci, Manzoni quando parla della rivolta popolare è attuale ancora oggi. Dostoevskij scriveva nell'Ottocento ma spesso parla di noi meglio di quanto sia capaci di fare noi stessi. Se un autore di libri o canzoni deve essere contestualizzato e calato in un periodo ben preciso, secondo me non è un grande ma solo un minore».
A marzo uscirà il suo nuovo disco.
«Il mio studio di registrazione è una sorta di laboratorio, una specie di bar delle idee, una sala riunioni nella quale passano in tanti. Perciò nel mio disco ci saranno ospiti, anche i Decibel».
Dopotutto lo sta registrando da due anni...
«Eh i tempi si sono dilatati anche a causa del Covid. Ma, tra tutti i lati negativi del lockdown e della pandemia, ho avuto la possibilità di stare più tempo in studio con i musicisti e di suonare tanto, migliorando le canzoni e rendendole sempre più vicine ai nostri obiettivi».
Ruggeri lei ha fondato il suo primo gruppo (i Josafat) a diciassette anni nel 1974 ed è quindi vicino al mezzo secolo di carriera.
«Se mi guardo indietro, sono fortunato.
Per secoli e secoli gli artisti sono quasi sempre stati sfortunati e hanno vissuto oppure sono morti in miseria oppure finiti nella fossa comune come Mozart. Per circa mezzo secolo gli artisti di successo sono starti anche ricchi e famosi e io ne ho approfittato per un periodo. Diciamo che sono stato fortunato».
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