Guardando alle ultime vicende, non solo italiane, in particolare al predominio di culture politiche e prassi governative statalistiche, assistenzialistiche, vagamente paternalistiche, e che tutto vogliono regolare e normare a discapito della libertà individuale, l'ultimo libro di Alberto Mingardi sembra assolutamente «inattuale». Ed in effetti lo è dal punto di vista dello «spirito del tempo», sin dal titolo di vaga assonanza baconiana, Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna (Marsilio, pagg. 358, euro 16). Ma, essendo poi noi tutti nel pieno di una crisi dei valori e di benessere, esso diventa assolutamente attuale, come appello disperato ad invertire la rotta che ci sta rapidamente conducendo al precipizio.
Le suddette risposte a questa crisi sono infatti non la risoluzione del problema, ma il problema stesso: e insistervi, che se ne sia consapevoli (quasi mai) o meno, è un clamoroso errore. Chi meglio di Friedrich von Hayek (1899-1992), che un'altra crisi di questo tipo si trovò a vivere al suo tempo, può allora farci da guida per provare a trovare il bandolo della matassa che ci avvolge e soffoca, anche con la sua capacità allegorica di rendere semplici ed evidenti concetti particolarmente complessi e spesso controintuitivi? Ecco allora la metafora dei «sentieri di montagna», che il nostro usò per farci capire che quel tracciato che noi percorriamo per non disperderci è il frutto non di un progetto concepito da una mente umana che si presuma onnisciente ma dalle migliaia di individui che lo hanno delineato attraverso tentativi ed errori, cioè attraverso l'esercizio della loro libertà. È l'ordine spontaneo che si è creato attraverso una razionalità concreta, fatta di esperienze e anche fallimenti. Tutte le nostre istituzioni hanno questa origine, depositarie di una sapienza nascosta che nasce dal fatto che la nostra conoscenza è dispersa e non è centralizzabile nemmeno mercé un algoritmo. Lo sanno i nostri governanti? E soprattutto siamo noi tutti in condizione di vivere la libertà, che è opportunità ma anche rischio, fino in fondo, cioè non barattandola con quella sicurezza che crediamo possa portarci la pace ma che in definitiva rende la nostra vita (per usare una metafora questa volta kantiana) molto simile a quella delle pecore menate al pascolo dal buon pastore?
Hayek ci ha poi insegnato a diffidare della «giustizia sociale», un altro mantra del nostro tempo che Mingardi smonta nei suoi presupposti e soprattutto nelle conseguenze. Anzi, è questo il vero centro del libro, ove tutti i fili della biografia intellettuale hayekiana si annodano. Il discorso di Hayek è perfettamente logico e consequenziale, per quanto controintuitivo: se si mette mano al meccanismo regolatore del mercato, non solo si annullano quote più o meno rilevanti di libertà individuali ma non si raggiungono nemmeno quei fini di sussistenza e benessere per la più parte della popolazione che sono l'obiettivo (non sappiamo quanto ipocrita) dei legislatori socialisti. La fortuna dell'Occidente, che è stata forse la prima e l'unica civiltà a ridurre la povertà a quote residuali, è consistita proprio nell'aver dato spazio a questo meccanismo che, apparentemente caotico, crea invece, indipendentemente dalle intenzioni dei singoli, la maggiore prosperità possibile. Proprio quella prosperità che una civiltà che non ama più sé stessa quale è diventata la nostra non considera quando affronta i temi della «giustizia sociale»: è preferibile avere tutti una quota parte della ricchezza totale in una società povera, o essere tutti in discrete condizioni economiche in una società ove qualcuno (capita) è più ricco degli altri? C'è una sorta di socialismo «eterno», cioè che persiste alla sua morte politica, e assume apparentemente altre forme, anche ora che i regimi comunisti sono per lo più stati cancellati dalla storia.
Stimolante è il capitolo sugli intellettuali, posto alla fine del volume, i quali in pochi casi si sono trovati, nel secolo scorso, nella parte giusta della storia (salvo riconoscerlo a babbo morto senza però fare seria autocritica). Con la loro arroganza (la «boria dei dotti» di cui parlava Giambattista Vico), con il loro disprezzo del capitalismo che con la sua vitale caoticità non può essere controllato dai loro schemi mentali, con il loro sentirsi superiori alla comune umanità senza nemmeno considerare la possibilità che la conoscenza sia diffusa fra i tanti e non sia centralizzabile e controllabile dai pochi, gli intellettuali continuano a dare anche oggi una pessima prova di sé. E anche se Mingardi non sarà forse d'accordo, i cosiddetti populisti hanno rappresentato a mio avviso anche la reazione a quell'opinione comune da loro promossa che ha finito ad un certo punto per ingabbiare la libertà intellettuale dei singoli. Giustamente Mingardi, nelle conclusioni, fa presente che il contesto del 2020 è profondamente diverso da quello in cui il pensatore austriaco aveva operato. E che quindi le sue ricette non possono essere fatte nostre pedissequamente. In molti aspetti però quella mania di riparare la società resettandola e riprogettandola non solo persiste ma si è fatta mentalità pervasiva.
Tenere sul comodino, insieme a poche altre (e anche diverse), le opere del buon Friedrich, non può che far bene alla nostra salute mentale (che per certi aspetti è più importante di quella fisica). Dobbiamo essere grati all'autore di questo libro per avercelo ricordato.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.