«Con l'economia, con il business, riesci a cambiare l'immaginario. Se questa serie spacca, i poteri forti saranno costretti a cambiare, a includerti», dice lo scrittore di origine angolana Antonio Dikele Distefano, presentando Zero, nuova serie Netflix (da domani sulla piattaforma). Nato nel 1992 a Busto Arsizio, egli appartiene a una nuova categoria sociolinguistica del politicamente corretto: gli afroitaliani.
Persone come il calciatore Mario Balotelli, per esempio, che nessuno sogna di incatenare a qualche categoria, ma che l'ex-ministra del governo Letta Cécile Kyenge si è fatta fruttare, inventando il movimento «Afroitalian Power». Immigrati africani di seconda generazione che cercano visibilità e crescita economica in «un paese, che non è pronto al cambiamento», stando a Distefano, il quale non ci sta a sentire «vecchie canzoni alla radio», o a guardare fiction televisive delle quali pensa: «Ma di che mondo stanno parlando?».
È quello che ci chiediamo pure noi quando in tv passano certi spot delle multinazionali che non perdono tempo a tradurre immagini e situazioni da noi inesistenti: dalla coppia nordeuropea di Prostamol agli utenti black di Amazon. Sono i grandi cartelli del business planetario a dettare legge: il sentimento nazionale, secondo una ricerca Demos, in 10 anni è sceso dal 28% al 20%. Così il gigante dello streaming Netflix, visto che da noi sono rari attori, sceneggiatori e registi neri, lancia la prima serie nazionale con attori non bianchi, in otto episodi girati da quattro registi e ispirata liberamente al romanzo di Distefano Non ho mai avuto la mia età (Mondadori). È la tendenza Oscar, partita dagli anni Settanta negli USA e che da noi conta molti attivisti, tesi a costringere Rai e Mediaset a sbianchettarsi un po', introducendo più storie afro possibile.
Intanto, Zero narra di un ragazzo timido (Giuseppe Dave Seke), che si chiama Zero, vive a Milano col papà e la sorella Awa (Virginia Diop), fa consegne a domicilio, in bicicletta, ed è dotato di superpoteri: quando vuole, indossa una bolla invisibile. Consegnando la pizza, s'innamora d'una ragazza milanese, borghese e benestante. Sarebbe una vita in salita, se non ci fosse il quartiere di appartenenza, abitato da Sharif (Haroun Fall), in cerca del rispetto di strada; Innocent (Madior Fall), che sogna di giocare nel Milan e Momo (Richard Dylan Magon),il gigante buono, vero motore del gruppo. «Zero è la storia di chi impara ad accettare la diversità. Vogliamo coinvolgere i produttori aprendo questa prima finestra verso la rappresentanza. Ma questa è anche una storia che parla di tutti i ragazzi italiani: non si tratta del colore della pelle», spiega Antonio, inizialmente scettico sulla trasposizione del suo romanzo. «La serie ha molta leggerezza, mentre il romanzo costringe a riflettere. Leggo manga e anime e da lì ho lavorato sull'invisibilità. Zero è l'inizio d'un processo di cambiamento», si augura, lamentando però che la conferenza stampa sia incentrata sul fatto che gli attori sono neri. Il che costituisce il fulcro del lancio Netflix.
«Nel mio palazzo, in Prati, ero l'unico nero e la gente mi guardava male. Poi, il barista ha cominciato a chiedermi: Succo di pera con brioche? e il ferramenta mi salutava», racconta l'autore. «Pensateci come personaggi. Zero è l'inizio della rappresentanza delle persone nere al cinema, in un contesto normale.
Bisogna andare verso una normalizzazione della nostra tivù», riflette Virginia Diop. Attenzione, però: «normalizzazione», intesa quale assoggettamento a norme uniformi, era la parola d'ordine del Terzo Reich. E in tempi di politicamente corretto, suona male.
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