Può capitare che uno scrittore dedichi la vita a un altro scrittore. Non si pensi a una forma di venerazione, o altruismo. È quell'autore che si studia e si commenta e si interpreta che ci ha scelto, vampirizzandoci. Non è il primo libro che Giuseppe Montesano ha dedicato a Baudelaire. Lo aveva fatto con Il ribelle in guanti rosa (2007), e prima ancora curando l'edizione delle Opere (1996) per i Meridiani insieme a Giovanni Raboni. Ora esce questa opera monumentale, Baudelaire è vivo. I Fiori del male tradotti e raccontati con Lo Spleen di Parigi, I Relitti e i Nuovi Fiori del male (Giunti, pagg. 1276, euro 28). La leggo di notte e di giorno, passando ore e giorni con la sensazione di sprofondare nell'abisso di un Io sconfitto che grida e piange, si lagna e canta, bestemmia e prega, sempre scisso, sempre doppio, sempre su quella soglia tra la volontà di essere (e di essere anche riconosciuto come poeta) e lo scomparire, tra la vita che lo incendia e il sogno che lo acceca. Rimbaud lo chiamava un Dio. Ma Baudelaire una divinità lo era solo a patto di accettarlo come un angelo caduto; un messaggero, un tramite che indossa la maschera del buffone, del ciarlatano, del saltimbanco, per raccontarci, attraverso immagini che erano sempre doppie, mai univoche, lo scandalo della realtà. Una realtà dalla quale si sentiva continuamente tradito, rifiutando ciò in cui l'uomo moderno si era trasformato la sua schiavitù al potere e diventando, di contro, il primo grande poeta moderno, colui dopo il quale tutto cambierà.
Montesano scrive, ed è una questione centrale sia per quanto riguarda la visione poetica di Baudelaire che per chi la commenta: «Gli artisti sono forse le sentinelle di Dio? È per questo che dipingono, in un crescendo di desolazione, il non poter amare, gli specchi oscuri ()? Li dipingono perché Dio sappia o perché Dio capisca? Forse essi informano un Dio purtroppo impotente o non del tutto potente di ciò che brulica nella creazione ammalata? () le sentinelle sono destinate alla sconfitta perché non c'è più un Dio, e i poeti, che segnalano il prossimo naufragio come fari nel buio, fanno arrivare la loro testimonianza alle rive dell'eternità per chiedere conto al Signore della realtà lasciata nelle mani degli Arconti malvagi, per chiedere conto della creazione abbandonata. Chi risponde? Non risponde nessuno: perché la voce delle sentinelle viene a morire alle rive della vostra eternità, un'eternità che è l'eterno ritorno della disperazione».
Giuseppe Montesano osserva Baudelaire al microscopio, leggendolo parola per parola, verso per verso, creando continui rimandi tra un componimento e l'altro, cercando vie tematiche lo Spleen, l'Idéal, il doppio, l'Eros e il Sessux, le maschere ecc. che sono tutte soglie, ferite in cui Baudelaire trova una ragione d'esistenza e d'espressione, scavando anche in quella vita orfana di un Dio, in quella vita in cui l'amore è sempre violato. Baudelaire pareva un uomo mai uscito da uno stato adolescenziale, quello in cui ci si sente perennemente incompresi, specie da quella madre che non credeva nella sua poesia, che rimproverava la sua dissolutezza, che gli aveva tolto l'eredità paterna, che rifiutava di essere amata da un figlio che agognava il suo seno con disperazione. Ma bisogna anche aggiungere che Baudelaire pareva voler restare coscientemente in quello stato, perché stare lì significava non provare vergogna delle proprie stesse colpe, nutrirsene come fossero una fonte inesauribile di creatività, essere al contempo dentro il bene e il male, viverli senza sentirsi costretto a scegliere di seguire l'uno o l'altro, non superando mai quella soglia, restando in una vertigine di buio e luce, di metafora e crudele realtà, quasi che quello stato non fosse altro che vivere contemporaneamente la nuda realtà e la sua rappresentazione, senza ammettere mai che una cosa fosse vera e l'altra un'illusione.
Eppure c'è una domanda che cammina sotterranea in tutto il libro di Montesano e che riguarda molto più da vicino lui che Baudelaire, o che riguarda entrambi, o quanto meno il patto che si è creato tra il poeta e il commentatore. Bisogna leggere la dichiarazione di intenti che Montesano ci tiene a precisare fin dall'inizio: «Per quanto mi riguarda, ovvero per uno che non è un critico o uno studioso di Baudelaire ma uno scrittore che scrive di Baudelaire, vale sempre la frase di Novalis che ogni lettore è un filologo, qualcuno che interpreta con amore le parole dei Maestri cercando attraverso la loro verità la verità di sé stesso». Viene subito da domandarsi per quale ragione Montesano non voglia essere confuso con un critico letterario dal momento che ha dedicato oltre mille pagine di studio a un poeta. Davvero la ragione può essere tanto banale come quella di fingere che questo libro possa leggersi come un romanzo per il terrore, tutto contemporaneo, che alla parola critica i lettori fuggano? Io credo che la ragione sia molto più sottile e profonda e che riguardi in specifico modo lo scrittore, dico proprio la sua storia, che è Giuseppe Montesano. Quella puntualizzazione vuole dire due cose, una generica e l'altra individuale. La prima ha a che fare col modo stesso di vivere la letteratura. Montesano ci ha insegnato, con l'interezza della sua opera, che non solo l'atto di scrivere, ma anche quello di leggere dovrebbe sempre essere artistico e che non vi è critica che possa dirsi tale se chi legge non è al contempo scrittore a sua volta, ovvero un commentatore che, appunto leggendo, schiude a sua volta un mondo di forme, di stile, di lingua, cioè di significati. La seconda ragione, quella individuale, è, me ne rendo conto, un azzardo interpretativo. E se Baudelaire fosse, per Montesano, lo scrittore che più di ogni altro incarna uno stato e un mondo che lo scrittore napoletano racconta da tutta la vita? Bisogna tornare con la mente a romanzi come Nel corpo di Napoli o Di questa vita menzognera, cercare di ritrovare con la memoria cosa hanno rappresentato quei libri, cosa mettevano in scena.
Ecco, la scena, dico proprio quel teatro che è Napoli, sono stati per Montesano la possibilità di esprimere come ordine e caos potessero esistere anche poeticamente. Non solo. Quell'ordine e quel caos non sono che maschere («ci stavamo chiedendo» si legge Nel corpo di Napoli «se la verità faceva bene alla vita o se invece la vita era fondata sulla menzogna»); maschere che non ad altro servono che a rifuggire l'idea del male e della morte: la morte dell'esistenza così come quella della poesia. Forse Baudelaire per Montesano non è che questa possibilità in cui verità e menzogna, ordine e caos coesistono. Baudelaire non è che la maschera che Montesano indossa per dire una verità nella quale non ha mai smesso di credere, pur sapendo che ogni sforzo è pur sempre quello di un Io sconfitto, di un Io che usa molte facce, sapendo che verrà umiliato e deriso, perché se mostrasse la propria nessuno capirebbe.
Non è Baudelaire ad essere vivo, ma è l'arte stessa che non può morire finché ci sarà qualcuno capace di farsi egli stesso «sentinella», angelo caduto, messaggero di una vita che vive nella sua stessa contraddizione, dentro i suoi stessi ossimori.
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