Hanno ammazzato Moro. Moro è vivo. E si dimette dalla Dc in rotta con ogni meccanismo del partito. Via Caetani. Baule di una Renault rossa. Il sacrificio è compiuto. Lo statista, accreditato a diventare presidente della Repubblica, di lì a qualche mese alla scadenza di Giovanni Leone, si trasforma invece nel martire di uno Stato che celebra i funerali di se stesso. Manca infatti il protagonista delle esequie. Il defunto.
Per lui, cerimonia in forma privata e passerella dei papaveroni politici fine anni Settanta senza Aldo Moro. L'artefice del compromesso storico. L'uomo per il quale un papa - Paolo VI - si era schierato apertamente. Il vicario di Cristo nel mondo, la quintessenza dell'ultraterreno, si era fatto inequivocabilmente terreno. Ma - come anni prima con Franco che supplicò per abolire la pena di morte - non venne ascoltato nemmeno dai brigatisti rossi ai quali chiese di liberare il presidente della Dc senza pretendere nulla in cambio.
Erano gli anni di piombo. Un sistema che vacillava. Marco Bellocchio, che nel 2003 li aveva raccontati in Buongiorno notte, torna sull'argomento con una serie tv in sei puntate di un'ora (protagonista Fabrizio Gifuni)che assaggerà la sala cinematografica dal 18 maggio con le prime tre parti e dal 9 giugno con le ultime tre. In autunno Esterno notte verrà programmato su Raiuno. Intanto arriva a Cannes per il credito di stima di cui gode il regista piacentino presso il direttore del Festival, Thierry Fremaux che un anno fa lo aveva premiato con la Palma d'oro alla carriera.
A gennaio, in una chiacchierata informale, era venuto a conoscenza del progetto di Bellocchio. Tempo quindici giorni, con un cartellone ancora tutto da definire, è arrivata la telefonata. «È il primo film che scelgo», diceva il francese. Ed è dai tempi de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana che un'opera così massiccia non sbarcava sulla Croisette. Stavolta il caso Moro, studiato come serie tv, trova un posto nella rassegna cinematografica più prestigiosa del mondo. E descrive l'esterno della notte più buia della Repubblica. Non più, quindi, un'esegesi degli eventi. Né un racconto degli accadimenti ma come è stato vissuto il sequestro e la condanna a morte dell'onorevole Aldo Moro. L'esterno, appunto.
Ne esce un quadro impietoso che non risparmia accuse brucianti, cui nessuno è esente. L'ambiguo Francesco Cossiga, ministro dell'Interno e pupillo del presidente Dc che non ha saputo proteggere dai rischi del terrorismo. Il cinico Giulio Andreotti, ritratto del male assoluto. Il gelido Benigno Zaccagnini, segretario Dc e icona di quegli squali che nuotano in parlamento e - tra la retorica di circostanza - lasciano morire un «amico». Il freddo e negativo Enrico Berlinguer. Il dolore dei familiari di Moro che cozza contro il muro di falsità della politica militante e lo zelo iconoclasta di una lotta armata che anch'essa firma la sua fine con i proiettili che spengono la vita dello statista.
Esterno notte è opera di grande corporeità perché, anche attraverso la fisicità, viene descritta la tragedia. Il divo Giulio cede alle convulsioni dopo la notizia dell'agguato di via Fani. Cossiga è divorato da una tensione che gli consuma la pelle. Il pontefice crolla progressivamente verso la china finale e morirà due mesi dopo il tragico rinvenimento della Renault rossa. Sangue sull'arte. La settima.
Il cinema evocato tra riferimenti ad Anima persa e Il mucchio selvaggio, titoli emblematici che rappresentano l'agnello sacrificale Moro e il terrorista Valerio Morucci in un dedalo di incroci che solo alla fine mostra i volti dolenti dei veri protagonisti.
E colpiscono maggiormente proprio nell'anticlimax verso l'abisso con quel funerale senza defunto dove i veri cadaveri sono quelli delle «autorità», ignare di celebrare la morte di uno Stato di cui sono espressione mentre la stessa lotta armata firma la sua morte. Esterno di una notte senza fine.
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