Subito, ad apertura di libro, il lettore si accorge che questo La terra di Caino (Mondadori, pagg. 144, euro 20) è un libro nuovo, potentemente innervato di energia spirituale, nutrito di una forte visionarietà simbolica e di una esigenza profondamente etica, insolito nel panorama della poesia italiana contemporanea. Ne è autore Alessandro Rivali, nato nel 1977 a Genova ma attivo nell'editoria a Milano, già autore di una bella raccolta di versi come La caduta di Bisanzio e di un fortunato libro di conversazioni con Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound. Il tono dei primi versi, raggruppati non a caso in terzine, sistema strofico che ritornerà in più parti del libro, è biblico e epico, e vi si staglia subito la figura di Caino, «il primo degli assassini». A lui si rivolge sibilando la voce del serpente che lo invita a sfogliare insieme l'albero del male, e che gli profetizza un cuore simile a un «nevaio di vespe», una «potenza guasta», una vita incisa sul marmo, un «intreccio di narcisi e falci».
La forza visionaria ed etica è rafforzata da metafore ed endiadi molto ben costruite. Quando il tono si fa più narrante, leggiamo che «Caino uccise d'estate» e «spezzò la schiena ad Abele», e vediamo scorrere i ricordi d'infanzia del fratello futuro assassino col fratello futura vittima, i giochi con la spada di legno, i colori del mare, il gatto che lotta con lo scorpione. Caino sente subito il bisogno di perdono: «sostava ai crocevia del male,/ ma benediva la rugiada/ che apriva le rose del deserto.//E continuava a chiedere luce/ come Giovanni della Croce/ o Ungaretti sul San Michele». Trovo straordinariamente felici questi versi, nel loro salto temporale, nel loro accostare mistica e poesia, male e luce, deserto e rugiada. È lì che emerge al massimo grado la religiosità dell'autore che è biblica, etica e poetica.
Il viaggio di Caino per una terra «guasta» come la sua forza arriva nel nostro tempo. E il luogo che diventa centrale nel libro è Genova, ma non quella conosciuta e cantata nel Novecento: la Genova di Rivali è «strappata dal vento», vista di schiena, silenziosa, marmorea, bianca come i fantasmi, enigmatica come la morte. È la Genova del cimitero monumentale di Staglieno, uno dei più celebri al mondo. «Ricordo la schiena di Genova/ tra i marmi e i volti di Staglieno», regno delle guglie che «sfida le fiamme dei cipressi», dove si leggono nelle tombe «capogiri di storie», e Caino può «scorrere il nastro delle vite», incise nel marmo per sottrarle all'oblio della morte. Alla fine, il sogno di Caino, invecchiato nella nostalgia del paradiso perduto, è il ritrovare la misericordia, la via del perdono, mentre un principio d'alba fora il muro della terra e rischiara il suo volto. E irrompe il ricordo dell'«estremo perdono», quello che Cristo in croce concesse al ladrone, che all'imbrunire era già un ibis, «acrobata tra le acque del paradiso».
Dunque, in questo libro il lettore troverà, nel miracolo della poesia, una impegnativa, problematica sostanza religiosa, che ne costituisce il cuore.
Ci sono nel libro rimandi a poeti, da Pound chiuso nella gabbia di Pisa a Ungaretti nelle trincee della Prima guerra mondiale, e molti riferimenti iconici, da Bruegel, l'autore del Trionfo della morte a Giovanni Pisano, il cui Monumento per Margherita di Brabante ispira al poeta le terzine più compiute e splendenti del libro: «Come Pound scrisse nel Paradiso,/ portami dove siamo sempre stati./ dove l'acqua si tinge di pervinca.// Perché questa fiumana di porpora/ sbiadisca in un estuario azzurro/ e io riveda la fonte e i giardini».
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