Camilla Grudova cuce racconti inquietanti con la crudele innocenza di una bambina

Dopo Helen McClory, ecco un'altra regina del gotico contemporaneo

Camilla Grudova cuce racconti inquietanti con la crudele innocenza di una bambina

Coulrofobia, pediofobia, automatonofobia. Viene da pensare a questi inquietanti ripostigli della mente, dopo aver letto i racconti di Camilla Grudova. Pensare, cioè, alla paura dei clown, delle bambole, di ciò che non è umano ma sembra fatto (creato dalla natura o assemblato dall'uomo in vena di parodiare sé stesso), a nostra immagine e somiglianza. E viene da pensare a questo nel tentativo di elaborare, in senso psicanalitico, una paura nuova in quanto antica: la paura, appunto, di leggere i racconti di Camilla Grudova. Perché quelle della scrittrice canadese, nonostante la forma, nella sostanza sono storie umanissime. Anche se generano nel lettore la reazione opposta rispetto a quella dello spettatore di It, o di Profondo rosso, oppure di chi se la fa sotto al museo delle cere: non l'orrore per l'ignoto, bensì l'orrore per il noto. Più precisamente, per la caricatura di ciò che è noto. Dobbiamo risalire agli orchi e alle fate, all'atavismo, alle metamorfosi (quelle di Ovidio e quella di Kafka), ma dopo averlo fatto ci resta un passo ulteriore da compiere: tornare bambini, rifarci una verginità ancestrale, riscoprire lo stupore.

Alfabeto di bambola (il Saggiatore, pagg. 205, euro 19, traduzione di Andrea Morstabilini) comprende tredici favole, o tredici giocattoli, o tredici filastrocche di questa bimba molto matura e molto riflessiva residente a Edimburgo, come Helen McClory, sua amica e vicina di banco nell'immaginaria Scuola del gotico contemporaneo (di Helen si veda la raccolta Fotogrammi di un film horror perduto, anch'essa edita dal Saggiatore). Niente avventure, niente incubi, niente esotismo, niente mostri. Almeno, come li si intendeva una volta. Qui abbiamo ragazze bruttine con fidanzati nerd o mariti con oltre il doppio dei loro anni, che rimangono incinte con poca convinzione o per errore, che abitano case piene di cianfrusaglie vintage, di topi, insetti, cibo andato a male, libri illustrati. Qui va in scena uno spettacolo circense pieno di freaks della porta accanto, ma senza spettatori, senza applausi, senza risate. Qui la cattiveria non è premeditata, ma l'effetto di un balzo indietro nel processo evolutivo della mente. E la crudeltà è sempre incapace di intendere e di volere. Camilla Grudova, essendo femmina è madre, dunque genera, assembla, ricompone. Non a caso la figura più ricorrente nei suoi racconti è la macchina da cucire, che «con un solo dente argentato» può fare miracoli. Ed è anche, come detto, una bimba che gioca.

Così il suo animismo infantile conferisce il dono dell'umanità, oltre che a una sirena arenata, a un candelabro nato dalla copula fra un polpo e una polena, e a una specie di ragno meccanico che, come il dottor Frankenstein, vuole infondere la vita proprio... a una macchina da cucire. Sacrificando una delle sue tante gambe.

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