Nella post-modernità, ovvero la società dello spettacolo applicata alla logica delle merci e del consumo, il Paese dei balocchi di un Pinocchio contemporaneo è la televisione. Non è un fenomeno italiano: quando da noi il Grande Fratello non esisteva, in Spagna già spopolava El Grande Hermano , costola iberica del Big Brother d’oltremanica, a sua volta, figlio, se non ricordiamo male, del Nord Europa... Poiché come al solito si vedono più i difetti altrui che i guai propri, oppure si gode masochisticamente nell’autoflagellazione, la proiezione di Reality, unico film italiano in concorso a Cannes, ha già scatenato la corsa interessata all’interpretazione,con i giornalisti stranieri divisi fra chi ci vede una metafora del berlusconismo e chi si rammarica perché purtroppo non c’è, e quelli italiani provincialmente ansiosi di non dar torto ai seguaci del primo teorema, ma sufficientemente scafati per rendersi conto che sposare il secondo non farebbe uscire dall’ impasse di un film fallito.
Al contrario, Reality è un film riuscito, una sorta di favola cupa che racconta l’uomo medio occidentale e il suo vivere in un mondo di non luoghi: gli outlet come gli acqua park, i supermercati come gli alberghi-residence specializzati nei matrimoni in stile catena di montaggio: tanti, contemporaneamente, in spazi appositi, con le medesime modalità. Essendo italiano, e non essendo, bontà sua, portatore di messaggi (per quelli c’è la segreteria telefonica), Matteo Garrone usa l’elemento nazionale per raccontare una realtà occidentale e sotto questo profilo la dimensione napoletana lo aiuta perché gli permette di ritrarre meglio, nel gioco dei contrasti, la grande mutazione sociale a petto dei residui passivi di una società tradizionale che pure permane, e a suo modo fa resistenza, se non argine.
I palazzi settecenteschi sgarrupati e sovrappopolati, le piazze con le botteghe e la vita di quartiere e le periferie anonime popolate di centri commerciali, la stratificazione familiare (nonni, figli, zie e nipoti)e l’eldorado da soapopera e della vita formato rotocalco. La stessa religione, se si vuole, fa parte di questa dicotomia, conservatrice e illusoria nel suo opporsi alle illusioni di chi pensa che apparendo in un programma, un quiz, un varietà risolverà in fondo i suoi problemi. A tutto ciò Garrone aggiunge una perizia fantastica nelle scelte degli attori, tutti o quasi professionisti, di cui seleziona facce, fisici, gestualità, in modo tale da renderli più credibili della normale gente di strada e al tempo stesso surreali e come allucinati, maschere e insieme cartoni animati: si veda l’incredibile clan familiare.L’unica eccezione, ma fino a un certo punto, sta nel protagonista, Aniello Arena ( Luciano), quarantenne, in carcere da quando ne aveva venti, da dieci anni attore presso la compagnia della Fortezza del penitenziario di Volterra. Qui a Cannes, naturalmente, non era presente. A fronte di tutto ciò, la strumentalizzazione di Reality suona francamente noiosa e ricorda quella frase del C’eravamo tanto amati di Ettore Scola: «La giovinezza è passata e non ce ne siamo nemmeno accorti ».
È cambiato tutto in Italia, ma ci si ostina a pensare che sia tutto come prima. Siamo un Paese di reduci. Reality parte da un fatto vero, come racconta lo stesso Garrone: è esistita, nel suo piccolo, una «sindrome del Grande Fratello », l’ansia di voler partecipare a quel programma che si trasforma in ossessione e/ o depressione. «Sono partito da lì e naturalmente ho lavorato per farne una metafora. Non c’è nel film nessun intento di denuncia, né di impegno sociale. Non è un film contro quel programma o la televisione in sé, e del resto non so nemmeno se oggi il Grande Fratello abbia ancora l’audience maggiore nel suo genere, o se l’abbia soppiantato qualcosa d’altro. Lo dice uno che non è neppure uno spettatore assiduo dei programmi televisivi. Mi interessava di più raccontare l’aspetto illusorio del sogno, e quindi la televisione come nuovo Eldorado, l’artificialità che la vince sulla realtà e anche per questo stravolge la vita delle persone. Non è un caso che abbia ricostruito quasi tutto, come fosse un set, o che abbia privilegiato luoghi che sono tali per le merci che contengono, non perché abbiano una storia. L’artificiale è il nuovo che avanza, e per raccontarlo ho usato il volto e l’innocenza di uno come Aniello Arena, il quale proprio perché è recluso da una vita, aveva comunque su tutto, passato, presente, futuro, lo sguardo naif di chi si stupisce e scopre ciò che non ha mai visto, ciò che non fa parte della sua quotidianità».
Esuberante, ciarlatano e trafficone, innamorato della famiglia, il Luciano di Reality sarà in fondo spinto dalla famiglia stessa, che ama far ridere, con la quale si diverte a improvvisare e a recitare, a partecipare a quel casting che gli sarà fatale: vende la pescheria, dilapida i risparmi, nell’attesa di una chiamata che mai arriverà, scivola nella pazzia. Alla fine, nella Casa entrerà di soppiatto, durante un viaggio religioso a Roma per partecipare alla Via Crucis.
A suo modo, finisce in croce anche lui, e forse dopo, anche per lui, c’è la resurrezione.
«È un finale comunque aperto, fra i tanti possibili e scartati, e non sta a me suggerirne un’interpretazione, ma al pubblico. Certo, racconto un lento precipitare nella follia, ma è anche vero che, per la cronaca, il protagonista del fatto vero da cui sono partito, è rinsavito». Qualcuno gli avrà cambiato canale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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