«Emballeur», imballatore. Questo l'appellativo riservato dai Parigini ad Antonio Canova, il grande scultore che pure Napoleone considerava l'artista supremo. Un titolo dispregiativo, coniato ad hoc per quello che era diventato il nemico numero uno dei musei francesi, non si sa se dal principe di Talleyrand, ministro degli Esteri di Luigi XVIII o da Vivant Denon, direttore del Louvre. Nell'estate del 1815 Canova era stato incaricato di recarsi a Parigi, con il mandato di riportare a Roma i capolavori dello Stato Pontificio razziati nel 1797 durante la Campagna d'Italia. Dal Laooconte alla Trasfigurazione di Raffaello, il Piccolo Caporale col Trattato di Tolentino aveva ottenuto la cessione di cento opere d'arte e cinquecento manoscritti. La spedizione francese di Canova è la prima delle imprese raccontate da Alessandro Marzo Magno in Missione Grande Bellezza (Garzanti, nelle librerie dal 2 marzo). Lo scrittore e storico veneziano riunisce le storie degli uomini e delle donne che hanno salvato i tesori d'arte trafugati dal Bonaparte e da Hitler, mettendoli al sicuro o recuperandoli in maniera spesso rocambolesca, rischiando in prima persona, e spesso usando l'astuzia ancor prima che il diritto, di fronte a interlocutori per nulla remissivi, nonostante incarnassero la parte degli sconfitti.
Così Canova si trova a muoversi pochi mesi dopo Waterloo, per conto di uno Stato piccolo, senza esercito e privo di relazioni dinastiche, laddove i Prussiani andavano a riprendersi il maltolto sulla punta delle baionette, e gli austriaci contavano su di una poderosa forza di occupazione. Canova no, lui poteva contare solo sul proprio prestigioso, e sul titolo di scarso peso specifico di direttore dei Musei Romani. Dovette così tirare dalla sua parte i diplomatici britannici, in primis il sottosegretario agli Esteri William Richard Hamilton, l'uomo che aveva sovrinteso alla raccolta dei marmi del Partenone e a recuperare la Stele di Rosetta, inviandola a Londra. Una specie di Indiana Jones, dell'epoca, con residenza a Napoli e moglie-la bellissima Lady Hamilton -che era stata l'amante di Horatio Nelson. In più, i Francesi erano convinti di aver fatto comunque un'opera di pubblica utilità, sottraendo i dipinti da monasteri e conventi dove erano invisibili, «universalmente mal tenuti, coperti di fumo e di polvere, in luoghi alti e disadatti, con lume per lo più contrario». Messi alle strette dagli inglesi, anche in virtù del fascino esercitato da Canova sullo stesso Wellington, acconsentirono alla fine a restituire le opere al Papa, con l'espressa indicazione vincolante che sia istituita a Roma una pubblica galleria. Nacque così la Pinacoteca Vaticana, e il Pontefice potè riavere i suoi capolavori, raccolti in 34 casse. Sono molte però le opere che non ritrovarono la via dell'Italia, dall' Incoronazione di Spine di Tiziano prelevata a Santa Maria delle Grazie, alle Nozze di Cana del Veronese, il mastodontico telero che fa compagnia alla Gioconda nella stessa stanza del Louvre, e che nel 1994 l'avvocato newyorkese Arno Klarsfeld- allora fidanzato di Carla Bruni- tentò di riportare a Venezia. Poi Carlà sposò Sarkozy, Klarsfeld ne divenne consigliere e il Veronese restò dov'era.
Ma la forza di Missione Grande Bellezza è anche quella di demistificare alcune contrapposizioni manichee. Tra i Monuments Men che hanno salvato le opere d'arte italiane non mancano figure non di facile decifrazione, come lo stesso Rodolfo Siviero, l'uomo che più di tutti ha contribuito a riportare in Italia i tesori dispersi nel territorio del Reich. Siviero che è riuscito nell'impresa record di ritrovare per due volte la stessa opera, il Ritratto d'uomo di Memling, la prima nel 1953 e la seconda nel 1973, in un albergo di Zurigo, dopo che nel 1971 era stato di nuovo rubato. Guascone, forse anche millantatore, probabilmente spia, certamente fascista, espulso nel 1938 dalla Germania come «persona non grata» (era borsista all'Università di Erfurt, ma è tutto da vedere se fosse davvero laureato), Siviero non solo ha compiuto sul campo operazioni funamboliche, come quando si presentò alla Casa di De Chirico a Fiesole, fingendo di essere un poliziotto repubblichino, e così portandosi via in autocarro i dipinti del maestro della Metafisica, per ricoverarli a Palazzo Pitti, al riparo dagli occupanti, o ancora quando bruciò sul tempo gli uomini di Göring, sottraendo loro l'Annunciazione del Beato Angelico che stava nel monastero francescano di Montecarlo a San Giovanni Valdarno. È anche il funzionario che, nonostante le diffidenze del partigiano Ragghianti e dell'eroica soprintendente di Brera Fernanda Wittgens (che lo definiva «un poliziotto del SIM»), riuscì a riportare in Italia il Discobolo di Mirone, insieme ad altre centinaia di opere, che erano state vendute o donate ai Tedeschi prima dell'8 Settembre e dunque apparivano non razziate ma acquisite. Erano gli anni in cui gli antiquari fiorentini spalavano la neve dalle strade quando Göring, dietro le segnalazioni di Filippo D'Assia, calava in Toscana per giornate di shopping d'arte compulsivo, e il patrizio veneziano Andy Di Robilant vendeva il soffitto di Palazzo Mocenigo dipinto da Sebastiano Ricci al Reichsmarschall, pur di finanziare un film sulle Regate Storiche.
Fu Siviero, sfruttando anche la legge di tutela concepita da Bottai nel 1939, a dimostrare nel Dopoguerra che quelle cessioni era state effettuate sotto il condizionamento della potenza tedesca, e dunque estorte. Non sempre era andata così, anzi. Ma le imprese monumentali, si sa, chiedono di sacrificare i distinguo alla causa...
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