Nella conferenza stampa online di ieri, il presidente dell'Associazione italiana editori Ricardo Franco Levi parlava non stagliandosi sul consueto sfondo di una scaffalatura di libri, ma come riemergendo da un sacello dove unica forma di vita nell'inquadratura era una stecchita pianta di ficus sullo sfondo.
In effetti, i dati che venivano via via snocciolati da lui, da Giovanni Peresson (direttore dell'ufficio studi dell'Aie) e da Simonetta Pillon, amministratore delegato della società Informazioni editoriali, a proposito dell'attività delle librerie dall'inizio dell'anno, parlavano di otto milioni di copie invendute, 134 milioni di fatturato persi, previsioni da Fossa delle Marianne, grafici che, lineari o a barre colorate che fossero, non potevano nascondere la nera realtà sottostante alla rappresentazione statistica.
Se l'anno scorso si rideva poco, oggi si piange molto. Del resto bastava guardare le facce dei librai nei giorni scorsi, a partire dalla riapertura dell'aprile-maggio (a seconda delle regioni), e mi riferisco a quanto ho visto a Milano sabato 16 maggio, a oltre due mesi dall'inattività. Feltrinelli Red, piazza Gae Aulenti, alle 16.45, zona non di movida, ma di covida. Tavolini dell'inutilizzabile sezione caffetteria-tavola calda accatastati come in un magazzino, solo cinque clienti ammessi in contemporanea, fila sparuta e spaurita all'esterno. Un'anziana signora timorosa con marito recalcitrante è venuta a cercare la fresca autobiografia di Woody Allen, che però non è ancora arrivata. Una giovane coppia con passeggino dice «Dai, entriamo», ma poi non sarà per un libro, ma per qualche aggeggio elettronico.
In vetrina troneggia l'ultimo istantaneo capolavoro del mediavirologo Burioni, chissà che finalmente non ci spieghi qualcosa, più qualche altro titolo sparso sull'argomento.
Gli occhi della giovane commessa, sopra la mascherina, comunicano desolazione. Ma cosa viene a cercare la gente qui? «Ci sono le poche novità in uscita e la promozione di titoli che erano usciti prima, come Prima di noi, di Giorgio Fontana».
Il tomo giganteggia voluminoso, ma anche sperso negli 80 metri quadri minimi a disposizione di ogni cliente. Esco veloce perché entri qualcun altro al mio posto. Se gli ingressi sono contingentati, ti senti in colpa a restare dentro.
Il lunedì successivo, alla Feltrinelli di piazza Piemonte, un negozio sterminato, l'atmosfera è la stessa, venti persone al massimo, qualche colonnina tematica su argomenti come «femminismo» e «Russia», giusto per riciclare quel che c'è, lavoratori frustrati. Parlano di uno di loro che si è fatto il covid, di un altro che non è più tornato, della cassa integrazione. Si vendono copie di Pandemia, romanzo di Lawrence Wright, scritto nel 1981 e ristampato a gran velocità da Piemme.
Stessa musica da requiem alla Mondadori di via Marghera, immensa e desertica come il Namib, dove la fila non c'è perché, dice l'addetto alla sicurezza e al gel disinfettante, «nessuno viene». Alle 17 ci sono 40 persone. Le cose si muoveranno in seguito, ma al piano terra, dove si vende l'elettronica.
Nel frattempo i distributori hanno riaperto, le novità editoriali si sono affacciate, è ripresa un po' di vita. Ma che fine hanno fatto i piccoli, gli indipendenti? Torniamo ai dati dell'Aie. Dal 16 marzo al 3 maggio gli editori hanno congelato oltre il 90 per cento delle uscite. Quindi ognuno si è arrangiato con quello che aveva. E che portava a casa dei clienti. Molti sono diventati gli Amazon del quartiere, per esempio Cristina Di Canio della «Scatola Lilla» di via Sannio a Milano che, essendo un negozio di una trentina di metri quadri, per decreto ministeriale avrebbe potuto ospitare solo tre quarti di cliente alla volta. Mi racconta che ha preso la sua Panda ed è andata in giro. I clienti sono quelli «fidelizzati», cioè quelli che ti conoscono già e, da quanto si è capito in questi giorni, i negozi che hanno tenuto duro sono quelli che potevano contare su tre fattori: i clienti fedeli, il catalogo on line e la consegna a domicilio.
Chiamo in giro per l'Italia, nei posti dove ricordo di essere stato, a chiedere come butta. Fra gli altri, parlo con Luca Di Costanzo, della storica «Raffaello» di Napoli, al Vomero. «Abbiamo fatto fronte al blocco di De Luca che permetteva solo corrieri autorizzati - mi dice - e alla fine di aprile, a quattro giorni dalla riapertura, i dati erano in linea con il 2019. Poi c'è stata una strana volatilità degli incassi, cioè un giorno venivano diversi clienti e un altro quasi nessuno, e non si è capito il perché, e a maggio abbiamo fatto il 50 per cento in meno che l'anno scorso. Vendiamo i testi più economici perché adesso il libro è percepito come un bene accessorio. Noi facciamo molto con i testi scolastici, ma quest'anno il contributo del Comune per i bambini non l'abbiamo visto». Anche loro si affidano ai clienti abituali, al loro «Club dei lettori». Ma le presentazioni online non smuovono copie. «Una su dieci, anche se c'è uno famoso come Maurizio De Giovanni - dice - Se manca l'incontro diretto con l'autore, la fisicità, non è più la stessa cosa».
Chiamo anche la «Modo Infoshop» di Bologna, tana di giovani intellettuali, ma la ragazza che mi risponde ha voglia di parlare come di farsi strappare le unghie.
Il brivido si è avuto quando Simonetta Pillon ha detto che, grazie ad alcuni sistemi innovativi, risulta che 17 librerie italiane abbiano addirittura incrementato i loro affari. Peccato non abbia detto quali siano, e come abbiano fatto esattamente, però una l'ho beccata. È a Catanzaro, quella della catena Ubik, notissima per l'entusiasmo.
A dirmelo è il titolare Nunzio Belcaro, che ha proposto titoli a tema come La peste di Camus o Spillover di David Quammen, si è mosso sui social, si è perfino fatto mandare le copie firmate dagli autori, è andato casa per casa. «Mi calavano i soldi con la fune dal balcone e io lasciavo sotto i libri e il resto. E meno male che adesso possiamo fare gli stessi sconti di Amazon».
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