"Col Teatro canzone Gaber è stato la bandiera (unica) di un altro '682

Lo studioso analizza testi, spettacoli e pubblico degli anni '70: "Una boccata d'aria per molti"

"Col Teatro canzone Gaber è stato la bandiera (unica) di un altro '682

L'approccio di Fabio Barbero, insegnante di italiano a Parigi, è quello dello studioso, interessato a «leggere i testi»: al tema che è poi diventato il suo approfonditissimo libro, Giorgio Gaber, Sandro Luporini e la generazione del '68 (Arcana, pagg. 432, euro 22) ha dedicato infatti la sua tesi di dottorato in Letteratura italiana alla Sorbona. «In Francia c'è più attenzione che in Italia a certe figure come Fo, Gaber e i cantautori... Questo primo volume è sugli anni '70, poi vorrei farne altri due, sugli anni '80 e '90».

Partiamo dal Teatro canzone di Gaber che, dice, non solo fa pensare, ma è esso stesso «pensiero in note, gesti, ritmo, luci e parole».

«Innanzitutto, in Italia lo hanno inventato Gaber e Luporini: lo stesso Gaber, quando gli chiedevano se ci fossero altri che facessero il suo mestiere, rispondeva di no. Era un po' unico, quello che faceva».

Perché?

«Ci voleva un'epoca, gli anni '70, in cui potesse nascere, con un pubblico che andasse a vedere e ad ascoltare spettacoli non solo per divertirsi ma, anche, per pensare; e ci voleva qualcuno che accomunasse, in un unico artista, una capacità di cantare molto bene e una verve attoriale notevole».

Che tipo di teatro era?

«Una forma che Gaber non chiamò mai politica, bensì di comunicazione: qualcuno va sul palco per due ore, da solo, con la chitarra o le basi musicali e riesce a intrattenere e allo stesso tempo far pensare su temi dei quali la gente si sente partecipe. In questo contesto, l'apparato teatrale aiuta ad amplificare l'emozione, ma la dimensione della parola è quella principale».

Gaber dice di scrivere «per i ragazzi del '68».

«All'inizio no ma, piano piano, con lo spettacolo Far finta di essere sani, del '73-'74, c'è un incontro con questi ragazzi, che sono la maggior parte del suo pubblico».

Che cosa trovavano?

«Chi aveva idee dure e pure, per cui solo la dimensione ideologica era importante, aveva difficoltà ad andare a vedere Gaber; ma nel Movimento c'era di tutto, e in lui i ragazzi trovavano uno che non parlava solo di questioni ideologiche ma anche personali, che i ragazzi stessi vivevano. E c'era anche un'ironia forte sul Movimento stesso, i suoi miti, il ruolo del leader, l'idea di essere i migliori... Lo sentivano uno di loro, però anomalo, perché molto critico; del resto lui stesso si prendeva in giro. Faccio spesso il paragone con Fo».

Ecco, com'era il rapporto con Fo?

«Negli anni '80, Gaber dice scherzosamente: ricordo i pomeriggi interi a parlare, in cui Fo mi faceva una testa così e cercava di convincermi a fare diversamente... Però si conoscevano dagli anni '60, Gaber doveva la sua formazione attoriale a Fo. C'erano amicizia e stima».

Però c'era una contrapposizione nell'idea di teatro?

«È Gaber che lo dice: l'idea di poter dare un messaggio dall'alto di un palco, che è una forma di potere, non corrisponde al suo essere, al suo temperamento e alla sua mente. Lui dice: non ho certezze, ho dubbi. Quelli di Fo erano spettacoli, ma anche comizi. Il suo era un teatro di intervento, quello di Gaber ha un altro taglio».

Più individualista?

«No, perché lui stesso rifiutava questa definizione. Direi dubbioso, e allergico a tutto ciò che era un maître à penser, un maestro che pensa per gli altri. Diceva: se mi dicono che sono un rompicoglioni, mi fa piacere. Però non esisterebbe il Gaber personaggio pubblico fra gli anni '70 e il 2002, senza Sandro Luporini».

Che scriveva i testi, dopo lunghe chiacchierate.

«In estate, quando Gaber finiva la tournée, si incontravano, parlavano e individuavano i temi per lo spettacolo successivo, a partire da quel brusio che Gaber aveva ascoltato. Luporini era schivo, si isolava, leggeva Céline, Stirner, Sartre, Pasolini, mentre Gaber preferiva i saggi, anche il Pasolini saggista».

Luporini scriveva e poi?

«Poi Gaber aveva l'occhio del teatrante, tagliava, sforbiciava, rielaborava musicalmente. Leggendo i testi si vede questo incontro unico».

Gaber è stato «la bandiera di un altro '68»?

«È Nanni Ricordi, vicino alla sinistra, a dirlo, paragonandolo a Fo. È la bandiera di chi non ha bandiere da sventolare, di chi è alle strette in certi discorsi troppo ideologici che, poi, diventeranno violenti. Gaber è attento alle persone, non solo alla lotta di classe, e porta sul palco dinamiche delle quali, nei gruppi militanti, non si può parlare. E lo fa in modo ironico e divertente: una boccata d'aria per tanti».

Racconta anche la fine dell'avventura?

«Sì, in

Libertà obbligatoria e Polli d'allevamento, gli ultimi due spettacoli del decennio. Polli d'allevamento è uno spettacolo duro in un periodo difficile e, per me, è l'icona di come Gaber fosse impossibile da intrappolare».

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