All'apice di una magrezza allucinata è degno dell'indignazione nuda, biblica, senza chiaroscuri caravaggeschi. «Io sono qui vivo nel dolore, in un luogo di sofferenza, e ciò che accade fuori mi offende molto di più perché ho guadagnato una maggiore consapevolezza. Ho la carne al vivo... amo maggiormente la vita perché la sto pagando e mi indigno di più con chi la offende e la bestemmia». Giovanni Testori, dal San Raffaele, scassinato dal male, ridotto a pura voce, pura profezia che s'arroventa sull'osso. Da lì, è il 1992, scaglia Gli Angeli dello sterminio (allora Longanesi, ora Feltrinelli, pagg. 82, euro 7,50), opera di cruda bellezza, né assoluta né assolutoria, per nulla un «crescendo» che «sfiora il manierismo», aliena agli «scenari apocalittici» che «possono essere consolanti», come scrive Walter Siti in una informata ma disaffezionata introduzione.
Opera biblica, piuttosto. Perché della Bibbia è l'ululato contro le città, l'anatema che anatomizza la colpa dell'uomo e dunque il fallimento di Dio, la crocefissione del potente e l'urlo che si disorienta in pianto. «Piangere insieme è il regno», scrive Sergio Quinzio, spirito ustorio come Testori. Bisogna leggere Amos (Dio solleva), «allevatore di pecore», e i suoi oracoli contro Damasco, contro Gaza, contro Tiro e Edom, contro Giuda e Israele; bisogna leggere i discorsi di Naum (consolato da Dio), che inneggia al «Dio rabbioso, che serba rancore», contro Ninive, e il libro delle Lamentazioni, che sfrangia interrogativi sulla città defraudata, desolata, decrepita («Io sono quello che sa la miseria, tumefatto dalla Sua ira io sono chi Lui ha guidato nell'oscurità»), per capire da dove proviene la topografia dell'Apocalisse, per capire che l'atto di scrittura è sempre la ribellione di uno che viene dal deserto, è un gesto «politico», fino all'osceno, fino allo sfascio, di uno contorto nell'incredulità.
Sembra un Beckett che balocca col Midrash, questo Testori terminale, che fa sterminio, anzi tutto, della propria opera «Devo ogni volta ricominciare: è la mia dannazione», dice in una intervista a Carlo Bo e la compie, con un verbo scevro da vie di fuga letterarie. Dalla ridda di voci, trachee che vagano come gamberi, pezzi di labbra, lingue simili a rospi, sfogano rivelazioni: «Ma chi, adesso e qui, non è marginale? Chi non è semplice ombra?», «Riconosceresti tu, se potessi vederla, la tua città, adesso che s'è ridotta a un campo di sterminio, se pur lo sterminatore ancora non sia apparso?»; «Marciva il verme processionale di feti lunghesso la corsia maestra della storia, mentre le macchine ululanti principiavano a scagliarsi una sull'altra». D'improvviso, poi, il golfo di una preghiera, finalmente, in questo oratorio d'era postatomica, la sterminata povertà, l'abbandono: «Tu che tramonti oltre il crinale dei letti ove gemono i morenti, anche se fin a poco fa ritenuti liberi dal male, salvi o salvabili tu che tramonti oltre i crinali dei monti; i nostri; cui torneremo; un giorno, forse; o mai...».
Tentarono di arpionarlo alla cronaca, quel libro del disastro eppure: l'uomo deve fare sterminio di sé per avvicinarsi all'ostia, imboccare Cristo, ricrescere, lanciato. Erano i giorni di Tangentopoli, e Testori, sull'Indipendente, l'8 maggio 1992, a Renato Farina, ribalta chi vuole ridurre il latrato in tintinnio. «Quando sento che hanno preso questo o quest'altro, io sto con lo sconfitto. Mi aspetto che da un momento all'altro vengano a prendere anche me. Ho commesso colpe maggiori delle ruberie: sono le omissioni, il non essermi piegato su chi aveva e ha bisogno... Ti metti con il bilancino, adesso? Con il tuo uncinetto a raspare contro chi è stato un po' più cattivo di te? O ci assumiamo tutti la responsabilità della fine (perché è la fine) di una città, o altrimenti ci si limita a mettere la solita pezza al culo». Sbilanciato, a brandelli, Testori sbrana se stesso: il cancro che lo scardina e cancella è quello che divora la città. Egli, in qualche modo, è l'emblema della sparizione e del sofferente, del sudario e della lebbra, egli è il corpo della città indecente, «disperata e immemore».
Intorno a Gli Angeli dello sterminio, dal turbine bianco della malattia terminale, l'agone con San Paolo, fonte fondamentale, la scandita e spappolata Traduzione della prima lettera ai Corinti (Longanesi, 1991). «Leggo San Paolo da quando ero ragazzetto. È una delle colonne cui, nei momenti più duri, mi sono sempre disperatamente aggrappato. Anche nei momenti dell'ira e della bestemmia. Sono sempre andato a sbattere contro queste colonne», dice. Questa lettera, dettata in versi-guaiti, è l'alcova prima del massacro, l'ultimo respiro prima delle atrocità, la pulizia che avvia lo sterminio. «Stimo che Dio/ ha fatto di noi apostoli/ miseri cani/ a morte dannati/ ... nudi camminiamo;/ randagi,/ presi a calci veniamo/ ... Imprecati,/ benediciamo;/ nella persecuzione,/ amiamo;/ bestemmiati,/ preghiamo», così Testori rifà, lebbrosario di filastrocche, il capitolo 4 della Prima lettera ai Corinti. Poi verrà il tenero sbrego de Gli Angeli dello sterminio, che conclude, con slancio eucaristico, il dramma iniziato con quell'altro capolavoro barocco La Cattedrale (1974), «Della Cattedrale, in piedi, eran rimaste solo le grandi pareti laterali; ma la selva dei pinnacoli, dai più piccoli ai più grandi, era rovinata». Ecco cosa dobbiamo fare, dobbiamo sbandierare Testori sul viso dei notabili e dei parlamentari natanti da un Governo all'altro: perché tra sterminio e compassione non c'è differenza. Il cuore di questo romanzo che va letto come il rotolo di un profeta, è un incendio.
«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra», dice Gesù tramite Luca; «Il nostro Dio è un fuoco che divora», dice Paolo nella Lettera agli Ebrei. Nell'era della letteratura incenerita, del letterato al lumicino, Testori infiamma, con fragore che sopraffà la sofferenza.
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