Così errore dopo errore il Covid ci ha infettato

Fabrizio Gatti ricostruisce la catena di sbagli e menzogne che ci ha condotti alla pandemia

Così errore dopo errore il Covid ci ha infettato

Uno studioso che ha passato le serate di gioventù sdraiato in laboratorio a spiare scarafaggi trova una soluzione a tutto. L'idea gli viene pensando a un'invenzione cinese che risale ormai a piu di mille anni fa.

«Dopo aver provato vari metodi», riferisce l'agenzia Nuova Cina, «il dottor Tian ha finalmente scoperto che usando i fuochi d'artificio per spaventare i pipistrelli e farli muovere, e tirando una rete, la maggior parte di loro veniva catturata».

Provate a chiudere gli occhi e a immaginare la sorpresa pirotecnica, dentro l'oscurità assoluta di una grotta, sotto la volta di decine di migliaia di grossi pipistrelli aggrappati con i loro artigli alla roccia. I lampi. Gli scoppi. Il fumo irritante. Ecco, l'effetto è proprio questo. Ce lo racconta così l'agenzia Nuova Cina: «Durante l'operazione il dottor Tian si è dimenticato di prendere misure protettive. Dal soffitto della grotta l'urina dei pipistrelli gli colava sulla testa come gocce di pioggia. Se si fosse infettato, non sarebbe nemmeno riuscito a trovare le medicine per curarsi».

Nel 2012 è già noto il legame tra i pipistrelli e il coronavirus della Sars, altrimenti non avrebbero mandato nessuno a raccogliere campioni. Così come proprio quell'anno si scopre che tre operai su sei sono morti dopo aver rimosso detriti da una miniera abbandonata della contea di Mojiang, nella provincia di Yunnan. Ma il dottor Tian e la sua squadra incarnano il meglio della temerarietà che piace alla propaganda comunista: «Con la sua eccezionale perseveranza» lo celebra ancora oggi l'agenzia Nuova Cina, «il dottor Tian ha catturato quasi diecimila pipistrelli».

Otto anni dopo. Il capo dipartimento della Protezione civile porta in diretta tv, nella conferenza stampa quotidiana più seguita da tutti i canali, il nuovo consigliere scientifico che il ministro della Salute ha nominato per contenere l'epidemia.

E il consigliere scientifico, in trentanove secondi, demolisce a parole quanto in questi giorni ho spiegato ai miei genitori, alla mia famiglia, agli amici e ai miei lettori.

«Le mascherine alla persona sana non servono a niente. Cioè le mascherine servono per proteggere le persone malate dall'esprimere con la loro vociferazione ed evitare. E servono per proteggere il personale sanitario, perché naturalmente essendo a contatto con il malato, la vociferazione del sanitario potrebbe essere quindi, per chiarire, le mascherine di garza, quelle che oggi stanno in qualche modo per essere a ruba, anche sui siti Internet, non servono a proteggere i sani».

Non ho aggiunto né tolto nulla. Sono le parole del consigliere scientifico. Giornali e telegiornali riprendono e replicano l'opinione appena sentita: le mascherine ai sani non servono a niente.

Le società a volte intraprendono la direzione sbagliata pur sapendo che quel percorso può portare al suicidio. Succede a balene e delfini, quando vanno a morire sulle spiagge. Ed è successo a noi, grazie ai rapporti fin troppo ambigui tra l'Occidente e il nuovo impero d'Oriente.

Milano adesso è la retrovia dell'ecatombe. La città ancora tiene. La sua provincia no. E dalla pianura di Lodi alle colline di Bergamo e Brescia i campanili, i ponti, i paesi sono ancora in piedi. Ma quando li attraversi, dentro i loro sguardi deserti e impauriti, ti accorgi che milioni di abitanti sono ridotti a macerie.

Si muore nelle case ormai. La regione più ricca d'Italia, il sistema sanitario così avanzato da investire sui test sierologici ma non sui tamponi, non riesce più a curare i suoi malati. Non trova più bombole di ossigeno. Non schiera abbastanza ambulanze. Non ha sufficienti centralinisti per rispondere ai fili di voce che telefonano, piangono o annaspano. Utente occupato, gracchia a tutti l'avviso automatico.

Morire di Covid-19, che per coerenza andrebbe chiamato Sars, non è facile senza il torpore della morfina e la pietà delle terapie palliative. Nel senso che si muore, si. Ma non subito. «Abbiamo mandato un'amica infermiera a cercare l'ossigeno. La prima bombola disponibile a quaranta chilometri è arrivata che era già andato. Aveva una sete d'aria. Cercava in tutti i modi di respirare, di tirare dentro aria. È proprio come vedere annegare una persona e non potere far niente. Perché se annega nell'acqua ti butti e provi a salvarla. Ma così cosa fai?».

Migliaia di altre persone muoiono sole negli ospedali. Qualcuno con la macchina parcheggiata in sosta vietata vicino al pronto soccorso, perché quando ti manca il fiato, non hai il tempo di cercare un posteggio regolare. E lì il vigile ogni mattina passa e, come se il mondo fosse ancora lo stesso, infila una multa sotto il tergicristallo.

Il bollettino corre sui gruppi Whatsapp di ogni ospedale.

«Ti auguro di non vivere quello che sta succedendo qua nel mio reparto. Io vedo solo morti, a decine, da soli e con fame d'aria».

Continua da giorni, senza sosta, come le comunicazioni radio su un campo di battaglia. Alla fine del combattimento escono in silenzio dal turno in terapia intensiva e dai reparti. Lo stesso sguardo stravolto degli italiani dentro le trincee del Carso o sul montacarichi che saliva dall'inferno belga della miniera di Marcinelle. La stessa faccia piagata di soldati e minatori, la pelle solcata dall'elastico della mascherina, i lividi sul naso, il cuore a pezzi...

Ma adesso basta. Questa storia degli eroi può essere solo un cinico inganno. Quando una nazione lascia crepare i suoi cittadini sul posto di lavoro, perché ha sprecato tutte le alternative possibili, chiama i suoi condannati proprio così: eroi. Come nelle battaglie, soprattutto quelle che finiscono male. L'eroismo può essere la migliore morfina per distogliere il pensiero dalla ragione.

Proprio per questo noi non dovremmo permetterci di chiamare eroi i medici, gli infermieri, gli strumentisti e gli addetti alle pulizie e alle manutenzioni degli ospedali. Perché facendo così segniamo il loro destino. Lo tolleriamo. Pensiamo che la loro morte sia accettabile. E assolviamo coloro che da Wuhan in poi li hanno e ci hanno portati al disastro.

Le menzogne minacciano anche la nostra libertà. Viviamo ormai schiacciati tra l'alleanza dei governi con la dittatura nazionalcomunista e il frastuono dei social media. Finiamo così per ascoltare tante di quelle bugie da non riconoscere più del tutto la verità. Come a Mosca, a Pechino, a Wuhan.

Le drammatiche parole di Valerij Legasov vanno però oltre il messaggio diffuso a Wuhan dagli amici del dottor Li Wenliang dopo la sua morte. E sono parole di profonda speranza.

La verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no.

Alla verità non interessano i nostri bisogni o ciò che vogliamo. Non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa tutto il tempo Per ogni menzogna che diciamo, contraiamo un debito con la verita.

Presto o tardi quel debito va pagato.

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