Il tradimento. Questo è il fascino della vicenda francescana. Le stimmate alla Verna, nel 1224, giungono nel momento «di solitudine risentita, di insoddisfazione dolorosa rispetto agli esiti dell'esperienza sua» (Giovanni Grado Merlo, in Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Einaudi, 1997), come sigillo, quando Francesco, non più guida dell'Ordine da lui fondato, è sul ciglio di scioglierlo. La regola di vita che ha scritto, nel 1221, frugale e bellissima, è giudicata troppo violenta dai frati, che la ammorbidiscono in vista dell'approvazione papale, nel 1223. La tenacia di Francesco, la severità nel sostare tra gli ultimi e gli infimi, è letta come follia; l'Ordine dell'uomo che predicava povertà, obbedienza, santa ignoranza, che non fu mai sacerdote, partorisce il primo papa, Niccolò IV, sessant'anni dopo la sua morte. Pietra miliare di questa mutazione genetica e pietra al collo per ogni altra interpretazione fu la Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (1263), che raffinò la vicenda del frate di Assisi elevandolo a santo, inimitabile, ripulendo la stanza agiografica da ombre e inquietudini. «Quella di Bonaventura è una Vita Francisci addomesticata' in base alla situazione politica dell'Ordine al tempo in cui fu redatta, un Ordine già molto lontano dall'ortodossia della Regola. Fu una versione ufficiale e univoca cui tutti dovevano attenersi, decretando la distruzione di ogni altro documento biografico, in una Bücherverbrennung francescana!», mi dice Massimiliano Felli, che nel romanzo Vite apocrife di Francesco d'Assisi (Fazi, pagg. 372, euro 17) s'insinua nei luoghi oscuri della vita di Francesco. Traendone un libro colto e dinamico, che si legge con cinematografica gioia, come si assiste al ciclo francescano di Giotto nella Basilica di Assisi (che, per inciso, tradisce l'etica dell'insussistenza di Francesco).
Che cosa ha scoperto della vita di Francesco?
«Bonaventura ha fallito nel suo intento: nel XX secolo molte delle testimonianze apocrife sono riemerse dagli archivi circostanza che ho incarnato nel mio protagonista, fra' Deodato da Orvieto, il trafugatore dei manoscritti proibiti e ormai la storiografia odierna è pervenuta a una verità univoca sulla figura di san Francesco. Non ci sono misteri da svelare. Io ho voluto tentare un esperimento in un certo senso pirandelliano: dimostrare quanto le pseudo-narrazioni possano essere avulse dai fatti reali immaginando, sotto l'aureola del Francesco-Santo, un Francesco-Uomo diverso, opposto a quello cui siamo abituati, una figura ambigua, tormentata, riletta in una prospettiva laica e scettica. Il tutto è stata questa la scommessa più difficile salvaguardando la verosimiglianza storica e mantenendomi aderente all'oleografia tradizionale».
Che valore dà ad «apocrifo»?
«Le accezioni che più mi interessano della parola apocrifo sono quella relativa alla sua natura eversiva, di testimonianza non canonica, e quella etimologica: qualcosa di nascosto, che va cercato, disseppellito. Io complico il discorso perché le mie sono Vite apocrife di Francesco, al plurale, in quanto sia le piccole manipolazioni bonaventuriane, sia la mia versione paradossale, sia ogni altra sedimentazione leggendaria, sono t narrazioni in qualche modo parziali».
Qual è il libro che avrebbe voluto scrivere e quello che vorrebbe scrivere?
«Vorrei condensare in un solo, impossibile Romanzo Definitivo la prosa adamantina di Parise e il barocco di Bufalino, le profondità proustiane e il vitalismo di Hemingway, il perturbante schnitzleriano e le vastità del cielo che si aprono allo sguardo del principe Andrej, e poi ci voglio mettere labirinti
borghesiani ove la pendola di Tristram Shandy echeggi con l'ineluttabilità eschilea della Nemesi di Roth, e ambientare il tutto in un sanatorio alpino dentro una colonia penale nel bel mezzo d'un deserto messicano». DBrul
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