A leggerlo di questi tempi Shah-in-Shah (Feltrinelli), memoria di Ryszard Kapuscinski sugli anni trascorsi in Iran al tempo dello scià Rehza Pahlavi, fino alla fuga di questi e al ritorno di Khomeini dall'esilio iracheno, fa l'effetto di scrutare una sfera di cristallo che ci porti dritti in Arabia Saudita, con quella dinastia regnante principale alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo, un volume di acquisti di armi e materiali da costruzione per 50 miliardi di dollari, la presenza massiccia di personale statunitense, più di 30.000 unità, e masse di fondamentalisti che denunciano la corruzione del regime e la svendita del Paese all'odiato straniero. Sarà solida, la monarchia saudita, si chiedono quanti si rendono conto che Osama Bin Laden è il prodotto di forze rivoluzionarie e antiamericane all'interno del mondo islamico, affini a quelle che hanno provocato il crollo del regime dello scià nel 1979. Shah-in-Shah, cronaca e analisi di questo crollo, fa quindi l'effetto di un possibile copione per l'immediato futuro. Kapuscinski, il corrispondente polacco che alla scuola delle Annales aveva trovato un antidoto allo stalinismo in cui era cresciuto, è autore di libri che sono diventati dei classici: Negus, indimenticabile spaccato della corte di Haile Sellasie, Imperium, esplorazione di un'Urss allo sfascio, ma anche Il cinico non è adatto a questo mestiere, una lezione su quanto costi fare del buon giornalismo. Shah-in-Shah, pubblicato nel 1982, esce solo adesso in italiano, ma data l'attualità bruciante del suo tema ha tutti i numeri per diventare un best-seller. Il racconto è in flashback: chiuso nella sua camera d'albergo a Teheran, pochi giorni prima della partenza, mentre la stampa annuncia a titoli cubitali la partenza dello scià e il ritorno dell'ayatollah, Kapuscinski riordina le foto. Una dopo l'altra, queste restituiscono le tappe della cupa vicenda di una dinastia che, a partire dal 1925, ha visto due soli scià, entrambi decisi a modernizzare un Paese recalcitrante, la vecchia Persia apatica e sonnolenta, ribattezzata Iran dai Pahlavi. Padre e figlio agiscono con brutale impazienza. Il padre fa radere al suolo le moschee, vieta di fotografare i cammelli, animali retrogradi. La Persia tradizionale, il villaggio, tutto quanto puzza di vecchio viene messo al bando. Con le buone o con le cattive, l'Iran deve diventare un Paese moderno. Una di queste foto è famosa: raffigura Stalin, Roosevelt e Churchill a Teheran, in un soleggiato mattino del 1943. Due anni prima, l'esercito iraniano si era arreso ai reparti britannici e dell'Armata Rossa, al vecchio scià, grande ammiratore di Hitler, era succeduto il ventiduenne Rehza Pahlavi. Il quale si dice convinto di potere raggiungere Francia e Inghilterra in soli dieci anni. Non ha dubbi. Dopotutto non gli mancano i mezzi: i dollari, specie dopo l'aumento del prezzo del petrolio nel 1973, affluiscono inarrestabili. Rehza adora sfogliare cataloghi e riviste di armamenti, ordina a più non posso, perfino il cacciabombardiere F-16 che gli americani pensavano di non produrre più per il costo esorbitante, 26 milioni di dollari l'uno. Reza ne vuole centosessanta. Arrivano bastimenti carichi di merci: peccato non ci siano porti per l'attracco, a questo lo scià non aveva pensato. Nemmeno sapeva che mancavano magazzini dove stipare le merci, o autisti per guidare i camion ordinati in Europa, o tecnici capaci di usare i nuovi macchinari. In Iran arrivano 40.000 specialisti americani.
Cresce il risentimento verso gli stranieri. Suonano sempre più seducenti gli appelli di Khomeini dall'esilio iracheno di Najaf. Tanto più che la Savak, la polizia segreta dello scià, soffoca anche la più blanda espressione di pensiero.
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