Da quando tutto il mondo ha visto Fauda sullo schermo tv, i «mistaravim» sono ormai di famiglia. Sono agenti israeliani che sanno non solo l'arabo alla perfezione, ma che nel linguaggio, nel comportamento, nel gusto del cibo e nelle esclamazioni, anche parlando nel sonno, sono in tutto e per tutto capaci di arabizzarsi, appunto di «diventare come arabi».
Mistaravim. Chi ne vuole capire lo sfondo storico, politico, filosofico, il nodo di avventura, rischio e ideologia che li riguarda può adesso leggere Spie di nessun Paese di Matti Friedman (Giuntina, in libreria dal 29). È proprio nell'avventura e nel pericolo mortale continuo e nell'eroismo che i quattro mistaravim delle origini dello Stato raccontati da Friedman si giocano tutto: la loro stessa origine familiare e sociale, il loro cuore, il più alto senso della patria ebraica e insieme del legame col mondo arabo. E, fa capire Friedman, la patria non li ha mai ringraziati né li ringrazia abbastanza: sono sempre «mizrachim», orientali, patriarcali, religiosi, in un universo la cui cultura ha il segno genetico della storia europea, anzi, di quella del socialismo. Niente racconta la loro importanza storica nella costruzione dello Stato, spesso ignorata, della loro origine e della loro espulsione dal mondo dei genitori, descritta in modo appassionato, commosso, trascinante, da Friedman, scrittore israeliano ormai famoso e innestato nell'impegno letterario tipico della narrativa israeliana nel solco di Oz, Grossman, Yeoshua... L'origine dei mistaravim è geniale, casuale e insieme azzardata come lo sono tutte le cose di Israele. Matti Friedman l'ha rimessa insieme con pazienza, prima di tutto incontrando a Tel Aviv, novantenne, uno dei protagonisti, Yitzchak Shoshan, nelle sue varie incarnazioni: Zaki Shasho, Abdul Karim... e costruendo con documenti classificati o pubblici, con racconti e con i libri di storia d'Israele, i percorsi mirabolanti del primo nucleo arabo di spie. I suoi protagonisti sono quattro ragazzini magri, affamati, coraggiosi, sionisti e di linguamadre araba, dolci ma irti di spine mortali proprio come i proverbiali sabre israeliani, i fichi d'India della terra che divenne lo Stato Ebraico nel 1948. Ma allora, loro erano già sotto copertura a Beirut e ad Aleppo, chiamati non più col nome ebraico ma con quello dell'identità araba assunta, di nuovo mangiavano la polvere in cui erano nati per carpire i segreti necessari a vincere le guerre fatali d'Israele.
I protagonisti sono veri e subito li vediamo in fotografia: Gamliel Cohen, nato a Damasco, nel '48 ha 25 anni, è il più intellettuale, quello che ha sofferto più di tutti della discriminazione che l'élite ashkenazita ha indubbiamente praticato nei confronti della cultura mizrahi degli ebrei immigrati dai paesi arabi: gli europei erano laici, socialisti, paritari con le donne, disinvolti nei comportamenti sessuali. Questi, religiosi o almeno di ispirazione familistico-conservatrice, poco abituati a considerare alla pari il genere femminile, affezionati alla scala sociale e di sapienza dei loro Paesi d'origine. Gamliel è anche il più elegante e cauto, non vuole compiere attentati o uccidere, ma lo fa se necessario. Ed è il primo che incontriamo nel suo passaggio in veste di ragazzo palestinese a Haifa, allora ancora in mano araba, mentre rischia di essere catturato. Basta dire che sei di Gerusalemme e parlare con accento diverso, o rispondere con un riferimento geografico sbagliato, un indirizzo, un nome, una canzone...
Già la storia si riempie di ragazzini, come i nostri quattro che vanno verso Beirut, uccisi con un colpo alla testa al primo sospetto: mistaravim improvvisati e scoperti perché sprovveduti e sfortunati, poveri ragazzi ebrei di origine araba... Le avventure cominciano subito, figlie delle difficoltà continue nel realizzare le operazioni richieste dal Centro a Tel Aviv: la solitudine è la compagna delle grandi decisioni.
Con Gamliel troviamo Yitzhak, nato a Aleppo, occhialini tondi, una faccia da povero, 23 anni nel '48. È quello che alla fine è vissuto più a lungo e più felice. Poi c'è Havakuk Cohen, nato in Yemen, 20 nel '48, che, dopo tante imprese grandiose, sposa appena tornato a casa la donna del suo cuore e compagna di lavoro, Mira; ma nel 1951 va nel deserto, al confine della Giordania, dove qualcosa va storto e il contatto incontrato nottetempo lo uccide e lo lascia sulla sabbia. Come erano stati vicinissimi nella vita, lo segue sposando la sua donna l'altro giovane superagente Yakuba Cohen, di Gerusalemme, 23 anni nel '48, descritto come «il selvaggio» e invece talmente disciplinato verso il Paese da aver seguitato a servire in ruoli e incarichi segreti fin quando a 78 anni lo chiamano di nuovo nel 2002, tempo dell'Intifada.
I magnifici quattro, armati e determinati, vengono inseriti nella sezione araba del Palmach, gruppo d'élite che nel nuovissimo e disperato esercito israeliano deve riuscire a salvare l'Yshuv (da cui nascerà Israele) dal pericolo non solo arabo, ma anche nazista: è il tempo dell'alleanza dello sceicco Al Husseini con Hitler, e la guerra delle forze tedesche fino a El Alamein è anche una promessa di distruzione degli ebrei intenti alla costruzione di Israele. Anche gli inglesi fanno del loro meglio per ostacolare gli ebrei, e i nostri eroi li troviamo gettati a Beirut con puntate in Siria e in Giordania, e la parola caos non descrive a sufficienza il loro stato. Non hanno ricevuto nessun training, non sanno dove vivranno, sono affamati e doloranti, il governo approfitterà genialmente della massa dei profughi palestinesi che invitata dagli arabi si scaraventa fuori dei confini israeliani, per mandarli a spiare e agire in quel magma. Non sanno bene cosa faranno, e quando saranno là avranno una terribile difficoltà ad essere informati su cosa succede a casa loro: data la passione del mondo arabo nel mostrare i muscoli, mentre durante la guerra del '48 i nemici di Israele inaspettatamente perdono, i quattro sono sommersi da spaventose notizie di sconfitta di Israele. Solo col tempo riceveranno una radio con cui mandare al comando una quantità di informazioni svariate, di ogni genere. Dovranno, sul campo, compiere operazioni spericolate e al limite dell'umano, disinformati, affamati (aprono un chiosco con panini e caramelle vicino a una scuola non per copertura, ma per sopravvivenza!), abbandonati e carichi di un forte senso di contraddizione, perché in fondo sono tornati a rivivere la loro infanzia, cui sono affezionati e che ora devono sconfiggere in nome del sionismo. Si infilano anche in storie di donne che quasi li fanno scoprire, ma la carne è debole... Dopo aver bloccato con una sanguinosa esplosione un attacco in stile libanese di un camion pieno di esplosivo, aver compiuto svariate operazioni da soli e con gli inglesi che momentaneamente, con tutte le vergogne che hanno attuato per fermare gli ebrei al tempo della Shoah dal venire in Israele, sono i loro amici contro i tedeschi, preparano persino l'esplosione di uno stravagante grande yacht corazzato di Hitler nel porto di Beirut...
Ma quando i nostri torneranno a casa di nuovo si trovano a dover compiere una capriola cognitiva. Sono ancora israeliani? O sono diventati arabi? Certo che sono israeliani, e lo vogliono, ma il Palmach non esiste più, uno di loro viene persino arrestato perché creduto un nemico arabo, il loro mondo si ricostruisce su una identità sfilacciata e soprattutto su una quantità di giovani come loro, nati nei vicoli delle città arabe, che ci hanno lasciato la pelle.
Il nostro autore dice due cose diverse, e io concordo con una delle due: se Israele avesse riconosciuto subito che una sua parte importante era costituita dalla cultura di origine araba, questo avrebbe limitato l'ingiustizia sociale.
La seconda che Friedman sottende è che Israele lungi dall'essere un Paese coloniale, nasce da una scelta sbagliata del mondo islamico stesso, quella di aver espulso due milioni ebrei dal mondo arabo per vendetta alla nascita dello Stato, provando così che Israele è parte dell'area: se Israele avesse fatto sua questa storia, sembra suggerire Friedman, avrebbe spinto il mondo arabo a accogliere lo Stato ebraico, senza poterlo accusare di colonialismo. Ma questo, purtroppo, non è vero. Le menzogne su Israele nascono su un albero altissimo, che dà molti frutti di ogni colore, e da cui molti non scendono mai.
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