Così il radiomessaggio del generale Badoglio e la "fuga" del Re lasciarono il Paese nelle mani dei tedeschi

Dopo l'arresto di Mussolini era chiaro ai generali di Hitler che l'Italia si apprestava a uscire dal conflitto. Il tentativo di ingannarli, con un comunicato ambiguo, fu ridicolo e servì solo a confondere i nostri soldati

Così il radiomessaggio del generale Badoglio e la "fuga" del Re lasciarono il Paese nelle mani dei tedeschi

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla Nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta». L'annuncio, diramato via radio dal maresciallo Badoglio la sera dell'8 settembre 1943, è quanto gli italiani si aspettavano di sentir pronunciare ormai da lunghi mesi, di sicuro dall'indomani del 25 luglio, da quando cioè la defenestrazione di Mussolini aveva fatto loro sperare che la caduta del duce fosse il passo preliminare alla sospirata fine della guerra. Non si aspettavano invece il seguito del messaggio: «Conseguentemente, - aveva chiosato il capo del governo - ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Non c'era bisogno di essere particolarmente addentro alle cose militari per capire da quale parte potesse provenire, al punto in cui si era arrivati, un «atto di ostilità» se non dai tedeschi. Ma perché allora non dirlo chiaramente? Facile la risposta: imbarazzo e paura o, meglio, un imbarazzo figlio della paura. Non a caso, fino all'ultimo, l'alleato era stato blandito con continue rassicurazioni sulla ferma volontà dell'Italia di mantener fede agli impegni assunti. Fatica inutile. Nessuno nei piani alti dell'esercito tedesco aveva minimamente dato credito alla dissimulazione con cui Badoglio aveva cercato di coprire le trattative aperte con gli Alleati. L'uscita dell'Italia dal conflitto era data ormai per scontata. Hitler, infuriato per la destituzione (e l'arresto) del suo compagno d'avventura Mussolini, si era anzi affrettato a predisporre un piano di occupazione del suolo italiano. Nelle intenzioni degli estensori quel sibillino ordine impartito al nostro esercito doveva servire a contenere i danni. Contribuì invece ad amplificarli, se non altro perché aggiunse il comprensibile sgomento della truppa alla scontata imprevidenza del governo.

Se lunga, tormentata e controversa era stata la gestazione dello sganciamento dal sovrastante alleato, abborracciato, pasticciato e disastrosamente ambiguo risultò il suo perfezionamento. Era dalla fine del 1942 che erano stati mossi i primi passi in tale direzione. I rovesci subiti in Africa, la rovinosa ritirata di Russia avevano liquidato ogni residua illusione nutrita a Berlino e a Roma sull'esito del conflitto. La catastrofe annunciata aveva minato le fondamenta del Patto d'acciaio. Nell'orientare in direzioni opposte i vertici militari e politici dei due alleati non erano state solo le diverse, incomparabili capacità di resistenza delle rispettive macchine da guerra. Era stata anche la diversa tenuta dei due fronti interni.

Hitler non era uomo da derogare dalla decisione presa di proseguire la guerra. Lo avrebbe fatto, come in effetti farà, a costo anche di mettere letteralmente a ferro e fuoco il suo Paese. La presa totalitaria dei centri di potere e la militarizzazione delle coscienze imposta all'opinione pubblica gli avrebbero facilitato il compito. Non altrettanto si può dire dell'Italia fascista.

I vertici istituzionali, il duce stesso, per non dire nell'establishment poco o tanto tutto in liaison con lo stato fascista, avevano presto maturato la consapevolezza che il Paese non era nelle condizioni né materiali né morali per prolungare ulteriormente uno sforzo resosi ogni giorno di più insopportabile agli occhi di una popolazione ormai stremata. Bombardamenti, lutti, sfollamenti, carovita, mercato nero congiuravano per scavare un solco rovinoso tra regime e opinione pubblica. Si era prospettata allora la mission impossible di uscire dal conflitto. Impossible forse non per tutti, ma certo per Mussolini, prigioniero com'era del suo ruolo. Il duce aveva reagito come reagisce un dittatore. Aveva cercato di scaricare sui massimi gradi militari e, per quanto possibile, anche su quelli politici ogni responsabilità dei sempre più gravi rovesci militari nonché dell'aggravamento delle condizioni di vita della popolazione.

Dopo il 25 luglio, tolto l'ingombro di Mussolini, l'iniziativa politica per far uscire l'Italia dalla stretta mortale con la Germania nazista era passata nelle mani del re e di Badoglio. La trattativa, condotta in modo confuso e scoordinato, su più tavoli e con più tramiti, si era retta sul presupposto che esistessero margini per ottenere qualcosa più di una disonorevole resa, magari per strappare addirittura un rovesciamento delle alleanze. Ciò avrebbe assicurato all'Italia lo status di alleato degli angloamericani e garantito alla corona di conservare, oltre ad una qualche traccia dell'antico prestigio, la pienezza dei poteri. Invece l'armistizio, imponendo la resa incondizionata, assestava un colpo mortale a ogni ambizione dell'Italia di riservarsi per il futuro un qualsiasi ruolo politico e con ciò segnava una completa débâcle dell'intera classe dirigente, monarchia in testa. Per di più l'armistizio si celebrava con l'atto finale di un letterale, poco onorevole squagliamento anche delle ultime vestigia dell'autorità statale.

Giungiamo qui all'atto finale del dramma 8 Settembre. Il re e Badoglio pensano di sbrigare ogni incombenza di loro spettanza nell'ora drammatica che vive il Paese semplicemente disertando. Abbandonano Roma e con essa gli italiani al proprio tragico destino, senza nemmeno preoccuparsi di diramare alcuna disposizione ai comandi militari, proprio nel momento in cui, com'è scontato, scatta il piano tedesco di occupazione del Paese.

La mattina del 9 settembre i nostri soldati, sparsi in tutto lo scacchiere europeo, si sentono dire dai loro ufficiali che non hanno ricevuto alcuna disposizione sul da farsi. Tutti a casa, quindi, ma come fare, visto che i più sono dislocati in Jugoslavia, Albania e Grecia, per non dire degli operai occupati in Germania, di fatto in balia della vendetta tedesca?

I militari, singolarmente o in piccoli gruppi, cercano di guadagnare fortunosamente le loro case. In qualche caso tentano anche una disperata resistenza, quasi sempre però pagata a caro prezzo. É questo il caso dei quasi 10mila uomini della divisione Acqui, sorpresi a Cefalonia dall'annuncio dell'armistizio. Circa duemila di essi finiranno sterminati dai tedeschi dopo alcuni giorni di combattimenti. Pesanti i costi complessivi dello sfascio militare: varie migliaia i caduti in combattimento e più di mezzo milione i deportati in Germania. Passano pochi giorni e l'Italia si ritrova divisa in due campi, l'uno occupato dagli anglo-americani, l'altro dai tedeschi. Il confine si stabilizza presto lungo la cosiddetta linea Gustav che corre dall'Adriatico al Tirreno passando per Cassino. Formalmente sono due anche gli Stati. Al Sud cerca di perpetuare la continuità del vecchio Stato il governo di Vittorio Emanuele III, sempre capeggiato da Badoglio. Per il momento ottiene di amministrare le province di Brindisi, Lecce, Bari e Taranto. Ma dopo il suo trasferimento, nel febbraio del '44, da Brindisi a Salerno allarga la giurisdizione a tutto il Mezzogiorno. Al Nord invece vengono fatti resuscitare il fascismo ed il suo duce. A Salò, sulla riviera del Garda, a ridosso cioè dalla Germania, si insedia la Repubblica sociale italiana (Rsi), con alla testa il redivivo Mussolini, liberato dai tedeschi dalla prigionia sul Gran Sasso.

Al Nord come al Sud, di fatto sono gli occupanti a riservarsi l'ultima parola sulle decisioni strategiche nonché ad esercitare la verifica di ogni atto dei governi ufficiali. Per Badoglio lo prevede persino un documento ufficiale per quanto segreto, il cosiddetto lungo armistizio, sottoscritto alla fine di settembre, con il quale ogni attribuzione di un qualche rilievo (dalle finanze ai trasporti, dalle banche alla stampa) viene riservata all'Allied Military Governement of Occupied Territories (AMG). Per la Rsi lo impone una stretta sorveglianza esercitata dal generale delle SS Karl Wolf e l'ambasciatore Rudolf Rahn, quest'ultimo dal 10 settembre nominato Plenipotenziario del Grande Reich in Italia.

Due stati, due governi, due regimi d'occupazione non definiscono solo due diverse giurisdizioni. Contribuiscono anche a ridisegnare le linee di frattura in cui si ricolloca l'universo politico degli italiani. L'Italia, forse come nessun altro Paese d'Europa, diventa la rappresentazione plastica delle due opzioni di civiltà che si sono date battaglia sul teatro del secondo conflitto mondiale e che in questo - ci si illude - ultimo scorcio di guerra guerreggiata stanno decidendo le sorti della pace. Di mezzo ci sta l'aspirazione degli italiani a chiudere, in fretta e con il minor carico di danni possibile, una partita risultata durissima ed ormai, sempre più agli occhi di tutti, già decisa. A parte ogni altra considerazione di merito e di opportunità, l'elemento davvero risolutivo nell'orientare l'opinione pubblica risulta la percezione, spinta ogni giorno di più dall'eloquente linguaggio delle armi a rafforzarsi in certezza, che la fine della guerra e con essa la liquidazione, definitiva e totale, del partito della guerra nonché di tutte le sue possibili seduzioni cui s'è dato colpevolmente ascolto negli anni dell'eccitazione nazionalistica passino attraverso la vittoria degli alleati. La linea pace/guerra tende a combaciare con la linea fascismo/antifascismo, per cui anche una popolazione che non ha certo morso il freno di fronte alla perigliosa corsa del regime verso il baratro del conflitto mondiale è spinta a riposizionarsi in blocco fuori dal campo minato presidiato dagli epigoni della causa fascista.

Il fascismo si annulla nel nazismo e insieme il nazifascismo si confonde con la causa di una guerra da perpetuare oltre ogni ragionevole calcolo e oltre ogni umana sopportazione. La battaglia per la pace diventa la battaglia contro il fascismo, la guerra per la liberazione del Paese dal nazista occupante guerra contro i suoi fiancheggiatori, la guerra antitedesca guerra civile.

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