La coscienza di Lispector brilla fra la luce e il buio

Flusso di pensieri, pesanti segreti di famiglia e una protagonista di nome Virginia (come Woolf)

Quando l'anagrafe ci ricorda che i libri che ci restano da leggere sono in numero minore di quelli già letti è facile diventare più esigenti. Non basta più un buon libro, ci vogliono i numeri primi. C'è bisogno di incontrare una voce originale, capace di quella naturalezza che è l'obiettivo vero di ogni scrittura con pretese di bellezza.

La letteratura ci regala una bellissima schiera di voci uniche. Una di queste è quella di Clarice Lispector (1920-1977), brasiliana di origini ucraine, di cui Adelphi sta rieditando tutte le opere. L'occasione per parlarne ci viene dalla recentissima pubblicazione de Il lampadario (pagg. 285, euro 19; trad. di V. Caporali e R. Francavilla), che fu il secondo romanzo della Lispector.

Nessuna scrittura narrativa (tranne la Woolf) presenta un carattere così profondamente femminile come quella di Lispector, eppure proprio questa capacità di scendere in fondo alla propria condizione, fino a generare una serie di capolavori, rende un po' ripugnante l'uso della parola scrittrice. In questo, la lingua italiana - a differenza di altre - è fascista e sessista.

«Per tutta la vita lei sarebbe stata fluida»: l'incipit de Il lampadario è assai più che un incipit: è il programma di tutta l'opera di Clarice, il suo destino specificamente romanzesco. Se nei racconti (ancora ragazzo incontrai Lispector attraverso i racconti) la materia si raggruma vestendosi di vicende che in poche pagine si devono definire, nei romanzi una dimensione più speciale, originale e scandalosa per la mente cartesiana, si distende - fluida, appunto - e interrogativa.

Noi siamo una dispersione, una sommatoria di stati - stati d'animo, pensieri, osservazioni, sensazioni, attività, passività - siamo in parti uguali ragione e assurdità, e l'esperienza capace di raccogliere questa dispersione in qualcosa di unico - quello che chiamiamo io - si realizza come evento dentro questo stesso flusso.

Virginia (il riferimento alla Woolf scatta da sé) è, all'inizio del romanzo, una ragazzina nell'età della preadolescenza, vive in Brasile in una casa circondata dalla campagna, ha un padre una madre una sorella ma soprattutto un fratello. Vicende tristi, talora vergognose passano silenziose accanto alle parole, destinate al lettore attento. La capacità di Lispector di raccontare, senza elucubrazioni, il mondo interiore di Virginia, l'incessante agglutinazione di stati, immagini, relazioni, riflessioni che ne formano il tessuto profondo, è stupefacente. Il tempo non ha, qui, radici astronomiche o cronografiche, è esso stesso il prodotto di una fluidità non lineare, che spesso - come il cielo stellato di Van Gogh - si rapprende in immagini più stabili, in rappresentazioni più solide, definite. La coscienza di sé si presenta sotto le specie di un segreto tra fratelli: la vista di un cappello trascinato dalle acque di un fiume, lo scandalo (solo immaginato) di un cadavere alla deriva, il giuramento di non parlarne mai, da cui nasceranno altri giuramenti.

Molto di rado l'io raggiunge un grado di perfetta, solare lucidità: perlopiù l'io è un segreto innominabile, è un giuramento che non può essere infranto, e che ci lega agli altri non secondo un principio (illusorio) di autodeterminazione - «sono io il padrone del mio destino» - ma secondo la natura di quel segreto: qui, il fratello Daniel, che dal ponte condivide la visione del cappello. Virginia e Daniel non si sono scelti, ma da quel momento le loro vite sono legate per sempre.

Eventi come questo non bloccano la fluidità che Virginia sente in sé come condizione primaria, ma le conferiscono una forma a spirale, come succede a tutti noi quando nel flusso dei nostri pensieri e dei nostri stati d'animo. Lispector è stata il genio di quest'area intermedia, di questo perlopiù della coscienza, e sono convinto che solo una donna poteva farcelo penetrare in modo così naturale.

Il lampadario di cui parla il titolo acquisterà il suo valore alla fine del racconto, quando Virginia, ormai adulta, dopo anni di lontananza dalla casa (tutta spazi, quasi senza mobili) in cui era cresciuta e dove si era nutrita di segreti, vi fa ritorno e rivede il lampadario della grande sala. Quel lampadario, unico e insieme molteplice, testimone della sua selvatica e difficile formazione, luminoso e oscuro, è lei stessa, ed è l'immagine più forte che Lispector trasmette al lettore.

Noi stessi siamo un lampadario, fatto di tante parti, una collezione di cose singole riunite non si sa come in una forma, in una luce non propria, una luce che nasce chissà dove.

Leggendo Lispector si ha spesso l'impressione che il suo modo di raccontare l'esperienza possa prescindere dalla sua dimensione umana. Togliete ai suoi personaggi gli abiti, la lingua, le scarpe, e i loro pensieri, la loro vita interiore d'un tratto somiglierà a quella delle api, delle farfalle, delle scimmie. La personalità umana si confonde con una vita più ampia e più indefinita, nella quale permane - quasi come l'eco cosmica del Big Bang - la traccia di una vergogna primordiale che non si può cancellare in nessun modo.

Tutte le figure di Lispector, a cominciare da quelle più marginali (il padre, la madre, la sorella) sono le testimoni immemori di una vergogna: le incomprensioni del padre, il silenzio vuoto della madre, le azioni innominabili della sorella maggiore sembrano la ripetizione, la pantomima di un atto spregevole e dimenticato, con la conseguente cacciata da una sorta di eden. L'eden siamo noi stessi, con il nostro bisogno - come disse Carver - di amare ed essere amati.

Ma è pur vero che è difficile parlare di questo bisogno d'amore senza l'intromissione di un lutto, di una vergogna, senza la consapevolezza che il nostro posto, quello che ci spettava, ci è stato tolto, e che noi siamo in qualche modo responsabili di questa perdita.

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