All'alba del 24 ottobre 1917, massicce formazioni nemiche investono le nostre truppe nella località di Caporetto, fra Plezzo e Tolmino. In pochi giorni, un fiume in piena di militari dispersi, ulteriormente ingrossato da decine di migliaia di civili in fuga, si ritira nelle retrovie, privo di contatti con i comandi centrali e periferici. Le cifre sono impressionanti ed eloquenti: 11.000 morti e 30.000 feriti, a petto di 350.000 prigionieri (tra cui 18.000 ufficiali), altrettanti sbandati e disertori, ingenti quantità di viveri, munizioni, vestiario e una parte considerevole del nostro armamento pesante abbandonati nelle mani del nemico.
Sul disastro di Caporetto sono stati scritti fiumi di inchiostro. Si può dire che, pur con le annesse varianti, due sono state le interpretazioni principali: quella data fin da subito dal comandante supremo dell'esercito italiano Luigi Cadorna, secondo cui l'evento era da imputarsi allo «sciopero militare» e al complotto delle forze eversive che lo avevano organizzato (soldati «vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi»), e quella tecnico-militare, che addossava le principali responsabilità agli errori tattici e strategici compiuti da due alti ufficiali: Luigi Capello e Pietro Badoglio.
In realtà le cose furono più complesse perché Caporetto portava al pettine uno dei nodi della storia italiana, quello dello scollamento fra popolo e Stato quale eredità irrisolta del Risorgimento. Questo aspetto venne messo in luce da uno dei maggiori storici italiani del Novecento, Gioacchino Volpe, di cui ora l'editore Rubbettino ristampa un testo fondamentale: Da Caporetto a Vittorio Veneto, a cura di Andrea Ungari, con un saggio introduttivo di Eugenio Di Rienzo (pagg. 139, euro 14). Volpe, come osserva nella sua acuta introduzione Di Rienzo, esclude l'ipotesi dello «sciopero militare» quale causa prioritaria della disfatta, e ugualmente non considerò decisivi gli errori delle gerarchie militari, anche se, naturalmente, queste due spiegazioni, intrecciate ad altre, non dovevano a suo giudizio essere trascurate. Del resto, se la causa fosse stata da imputarsi soprattutto allo «sciopero militare», cioè al venir meno dell'amor patrio, non si spiega perché fosse stata poi così rapida e vigorosa la ripresa politico-morale che portò l'Italia alla vittoria finale nell'autunno del 1918.
La ricostruzione di Volpe poneva Caporetto quale espressione rivelatrice dei problemi non risolti della formazione dell'unità nazionale, a cominciare dalle insufficienze della sua classe dirigente rappresentata dalla borghesia. A ciò andava aggiunta la divisione del «fronte interno», lacerato fra la minoranza degli interventisti e la maggioranza neutralista (socialisti, cattolici, liberali giolittiani), animata da sentimenti pacifisti e persino larvatamente disfattisti, pronti a riaccendersi al contatto dell'esempio pernicioso dei moti rivoluzionari russi.
Insomma Volpe concentrava la sua attenzione sulle inadeguatezze di un Paese in guerra che non era riuscito a farsi Nazione e che scontava il prezzo delle sue lacerazioni, le quali si riverberavano sulla condotta del governo e sull'esercito, acuendo la separazione fra mondo politico, mondo civile e combattenti. Questioni, queste, alcune delle quali si trascinarono anche nel primo dopoguerra e che non furono tra le ultime a delegittimare il regime liberale e a provocare l'avvento del fascismo.
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