Di Mussolini sappiamo molto e s'è scritto moltissimo. Di Bombacci sappiamo abbastanza e s'è scritto quanto basta, almeno per avere un'idea approssimativa del ruolo avuto da questo stravagante personaggio nella storia dell'Italia della prima metà del Novecento. Nessuno, fino a oggi, si era impegnato in un'analisi comparata dei due personaggi, nel considerare le scelte politiche e umane di due romagnoli doc, cogliendone gli incroci e gli scontri. Attraverso le loro biografie politiche è possibile illuminare una delle peculiarità (e dei paradossi ideologici) dell'Italia della prima metà del '900: il rigetto, condiviso da destra e da sinistra, della civiltà liberale. In un crescendo, a partire da inizio secolo e con una forza dirompente all'indomani della Grande guerra, l'idea di un progresso allargato alle classi popolari perde rapidamente credibilità fino a collassare. Crolla quella che lo storico marxista Eric Hobsbawm ha chiamato, dal titolo di un suo libro L'età del capitale: quel XIX secolo che aveva sancito il «trionfo della borghesia».
L'ingresso delle masse in politica e il «contagio delle idee» di libertà e di uguaglianza sono il combinato disposto che mette fuori gioco, insieme, classi dirigenti, modello di società di mercato, democrazia parlamentare. L'Europa del dopoguerra diventa terreno di coltura ideale di progetti rivoluzionari e reazionari. Simmetricamente a destra e a sinistra crescono minoranze estremiste e violente, tra loro nemiche, ma - ecco il paradosso - promotrici concordi di un nuovo ordine i cui punti fermi sono il rifiuto della democrazia parlamentare e il superamento della società di mercato fondata sul profitto individuale.
Su questo retroterra comune si sviluppano storie collettive parallele, volte entrambe a edificare regimi dittatoriali, il fascismo a destra e il comunismo a sinistra. Su questa stessa base si snodano anche storie individuali di giovani che nella loro esistenza abbracciano, in tempi diversi, opzioni opposte. Riprova, se ce n'era bisogno, che la matrice antidemocratica e anticapitalista era condivisa, e capace di produrre esiti di destra e di sinistra, indifferentemente.
C'è un'intera generazione educata a «libro e moschetto» che negli anni Trenta s'infervora per la lotta alle democrazie capitalistiche nel nome del fascismo e a fine guerra s'infiamma per la stessa battaglia nel nome del comunismo. Sono i casi, esemplari e clamorosi, di Benito Mussolini e di Nicola Bombacci: il primo, da irruente propagandista di un socialismo rivoluzionario, diviene fautore di un ordine autoritario, ma sempre (velleitariamente) antiborghese. Il secondo, da esaltato apostolo del socialismo, tanto da diventare uno dei fondatori nel 1921 del Pcd'I, si ritrova transfuga dal partito di Bordiga e Gramsci, e infine fervente seguace del fascismo più oltranzista.
Due storie parallele e insieme sovrapposte, quelle del «Lenin rosso» e del «Lenin nero», che vengono appassionatamente ricostruite da Alberto e Giancarlo Mazzuca in Mussolini-Bombacci. Compagni di una vita (Minerva, pagg. 372, euro 17).
Mussolini e Bombacci sono figli della Romagna (Dovia di Predappio e Civitella distano trenta chilometri). Affrontano gli stessi percorsi educativi (allievi della Scuola Normale di Forlimpopoli) ed esistenziali nel segno di «una forte passionalità e veemenza in difesa delle loro opinioni». Le loro strade si separano allo scoppio della guerra mondiale. L'uno creerà una dittatura di destra, ammantata da socialismo nazionale. L'altro porterà alle estreme conseguenze il suo rivoluzionarismo antiborghese, provando a «fare come in Russia».
Due storie parallele e antitetiche destinate, un ventennio dopo, a convergere in nome della comune avversione al comunismo stalinista e al «lurido tradimento» di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. Tutto questo in nome - soprattutto - dell'edificazione di un nuovo ordine economico, fondato sulla socializzazione, sulla «gestione diretta delle imprese» da parte dei lavoratori, sul passaggio a una forma di comunismo (nel caso di Bombacci) che prevede l'esproprio di «tutta la proprietà edilizia destinata all'affitto», pagandola con titoli di Stato.
La comune militanza giovanile nelle file del ribellismo antiborghese diventa la matrice che ricompone due scelte di vita alternative. La riconciliazione si completa sulle sponde del lago di Garda nei cupi giorni della Repubblica di Salò, quando ormai il sipario stava calando sull'ultima fase della dittatura fascista, e nel modo più tragico. Il «Lenin nero» e il «Lenin rosso» finiranno la loro esistenza l'uno a fianco all'altro, appesi al traliccio di Piazzale Loreto.
Presagendo il destino, Bombacci stende un epitaffio in cui riannoda le radici lontane della loro esistenza alle scelte che avevano diviso le loro vite, ma che in quel tragico momento sembrano le sole a essere significative: «Un giorno gli storici si chiederanno, ma che ci faceva accanto a lui Bombacci, il fondatore del Partito comunista? Sai, diranno, erano romagnoli tutti e due Si volevano bene, erano stati a scuola insieme».
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