"Dobbiamo imparare a essere soli insieme per vivere un po' meglio"

L'autore di «Il ragazzo» spiega la sua visione del mondo: «Sono idealista e pessimista»

"Dobbiamo imparare a essere soli insieme per vivere un po' meglio"

Per metà Mowgli, il fanciullo della giungla, per metà Kaspar Hauser, il ragazzo venuto dal nessundove che mise in crisi le sorti progressive della civiltà ottocentesca. Piuttosto, io me lo figuro con il viso di Dino Campana, e questo romanzo, Il ragazzo (Fazi, pagg. 520, euro 20) che ci tragitta nelle cavità di una vita senza nome (ispirato l'incipit: «Persino l'invisibile e l'immateriale hanno un nome, ma lui non ce l'ha. O almeno non è iscritto da nessuna parte, su nessun registro né su un qualsivoglia atto ufficiale. Neppure fra i recessi della memoria di un prete di una qualche parrocchia»), sembra l'anguria onirica di Dino, il prodigioso sogno del poeta elettrificato. Siamo nel 1908, scena iniziale di prepotente commozione (il ragazzo ha la madre in spalla, cerca il mare, lei muore, «Non bisogna dimenticare che mai nel corso della sua breve esistenza ha sentito pronunciare la parola madre. Né tantomeno la parola mamma... Il ragazzo non ha modo di sapere obiettivamente ciò che ha appena perso. Ma questo non gli impedisce di sentirne l'assenza fino all'ultimo atomo del suo essere»). Poi il sidereo assurdo di una vita da diverso, vampirizzato dalle idiozie dei civili che lo esiliano in marziale solitudine, che sa attirare l'amore (Emma, musicista, lo benedice di baci) e la morte, va in guerra, in gabbia, nel 1938 lo ammiriamo, a un soffio dalla fine, mentre squarta la serpe, in Amazzonia.

Ornato con il Prix Femina nel 2016, Il ragazzo rinnova il mito del puro e folle, del feroce innocente, con beata bravura. L'autore, Marcus Malte, noto per romanzi noir e libri per ragazzi (passò, dieci anni fa, per Piemme, con I morti danzano in punta di piedi e nel 2012 con Il corpo di Vera Nad, per Barbès), ha un viso piacione e sembra, facendo la chiromanzia del suo stile («Un giorno ogni uomo lascia dietro di sé la propria infanzia. Non la ritroverà. Solo alcuni, molto vecchi o molto folli, a volte possono beneficiare di quella seconda opportunità»), un Cormac McCarthy francese. Non è poco.

La storia de Il ragazzo ha fondamenta nella realtà o è fittizia?

«Sono un romanziere. Scrivo fiction, storie inventate. So scrivere soltanto quello ed è quello che mi interessa: creare personaggi, universi, e poter vivere, nel tempo della scrittura, tutte quelle vite che non ho mai vissuto, che non vivrò mai. Tuttavia, il contesto (storico, sociale) è in gran parte reale. Alcuni eventi sono davvero accaduti, certi personaggi che appaiono nel romanzo sono realmente esistiti. Il mix tra finzione e realtà mi interessa particolarmente».

Nel romanzo avverto un clima linguistico che ricorda Cormac McCarthy. Che cosa legge?

«Come i miei romanzi, le mie letture sono eclettiche. Leggo di tutto, di ogni genere. Ciò che amo in un autore è lo stile, la sua musica. La storia viene dopo. Mi sono immerso profondamente nella letteratura americana, ma i miei gusti cambiano e ora m'interessa la letteratura europea. Conosco gli scrittori contemporanei francesi. Ho dei problemi con le autobiografie romanzate, mancano di respiro. Certo, per Il ragazzo una delle fonti letterarie è Cormac McCarthy. Lo amo e lo ammiro profondamente. Ma ci sono anche altre letture. Jean Giono, Albert Cohen, García Márquez, Nabokov, Cendrars, Flaubert, Hugo, Perec... Volevo che questo romanzo fosse sulla scia del XIX secolo (i romantici, i naturalisti, e tutto il resto) e ci sono anche questi riferimenti».

Il tema della solitudine, dei rapporti esclusivi, dell'esclusione, sono forti. Che cosa pensa della società umana? Quale visione ha della vita?

«Una visione piuttosto naïve: ho più di cinquant'anni e non riesco ancora a capire perché le cose non vadano meglio. Mi sembra che non ci vorrebbe poi molto (basta lo sforzo di ciascuno) perché il mondo diventi migliore. L'essere umano è intrinsecamente solo ed è mortale. C'è già molto da sopportare, perché aggiungere mali ulteriori che si impilano uno sull'altro nel brevissimo tempo che dobbiamo passare su questa terra? Credo di essere idealista e pessimista allo stesso tempo».

Il mostro, il diverso, lo strano, l'estraneo. Anche questo è un tema cardine. Che cosa la affascina del «diverso»?

«Sono sempre stato sensibile al fatto che un gruppo, una comunità, un collettivo possano rifiutare un individuo, qualunque siano le ragioni (e sono sempre malvagie). Questo mi fa male e provo empatia per l'escluso. È terribile. L'uomo è solo per natura, dobbiamo riunire le nostre solitudini perché sia più facile vivere».

Ha scritto romanzi noir e libri per ragazzi. Che cos'è per lei la scrittura?

«Il modo migliore che ho trovato per entrare in contatto con gli altri, per condividere qualcosa. E anche un modo per obbedire alla mia differenza».

Si sente uno scrittore francese o «europeo»?

«Sarà anche un cliché, ma credo che l'arte non abbia frontiere. Dal particolare, bisogna essere in grado di raggiungere l'universale.

Sono fortunato perché i miei romanzi sono tradotti in tutti i continenti e credo, spero, che chiunque, in ogni parte del mondo, possa essere toccato da ciò che scrivo. Mi sento uno scrittore del pianeta. La lettura è più una questione di istruzione e di educazione che di nazionalità».

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