Iosif Stalin usava il telefono. La sua voce, profonda, telegrafica, giungeva da un al di là del terrore. Non parlava. Interrogava. Naturalmente, ogni risposta appariva timida, cretina, perché soltanto lui, Iosif Vissarionovic, possedeva ogni possibile risposta. Iosif Stalin telefonava agli scrittori, credendo, forse, che la storia della letteratura procedesse per intimidazioni e ammonimenti. Nel 1934 telefonò a Boris Pasternak: «Ma lui è un maestro?, chiese, riferendosi a Osip Mandel'stam. Pasternak, come si sa, tentennò. «Non è questo il problema», disse, sonnambulo, replicando che i due, il poeta e l'arcipotente, avrebbero dovuto parlare «della vita e della morte». Stalin stimava Pasternak, ne temeva il lignaggio linguistico. Riattaccò la cornetta.
Quattro anni prima aveva telefonato a Michail Bulgakov. «Le siamo dunque venuti a noia?», disse, secco. Pare che l'imperatore dell'Urss amasse particolarmente I giorni dei Turbin, il testo teatrale che Bulgakov aveva tratto da La guardia bianca. Era andato in scena a Mosca, nel 1926: Stalin se l'era sorbito più volte. Ma quella non era una telefonata che grondava elogi. Majakovskij si era sparato al cuore il 14 aprile del 1930, Bulgakov partecipò ai funerali del grande poeta, si sentiva morto da anni. Nel 1927 aveva pubblicato l'ultimo lavoro che gli avevano consentito di pubblicare, Morfina. Il racconto il diario spericolato del dottor Sergej Poljakov, morfinomane era ispirato alla realtà: nel 1917 Bulgakov, «per trovare sollievo a una reazione allergica provocata da un vaccino antidifterico, aveva cominciato ad assumere morfina in dosi sempre più frequenti e crescenti» (Serena Prina). Anche per questo, il testo è di mesmerica bellezza («Fu come se le pupille scure cominciassero dall'interno a riempirsi di luce, il bianco degli occhi si fece come diafano, azzurrognolo. Gli occhi si fermarono in alto, quindi s'intorbidarono e smarrirono quella bellezza fugace. Il dottor Poljakov era morto», è svelato, quasi subito, con predatoria potenza letteraria). Il resto, appunto, era una crocefissione di rifiuti. Fu Bulgakov, in verità, a porre la prima domanda. Il 28 marzo 1930 aveva scritto al governo dell'Unione Sovietica, «Sono dunque pensabile in Urss?». Nessuno gli aveva risposto. Poi Majakovskij si ammazza. Quattro giorni dopo la morte del poeta, Stalin telefona a Bulgakov. Vuole sistemare la situazione. Il Teatro dell'Arte aveva rifiutato una richiesta di lavoro avanzata da Bulgakov. «Ritenti. Accetteranno», lo rassicura Stalin. Ovviamente, d'improvviso, per effetto d'ipnosi burocratica, il teatro assume Bulgakov. Il grande scrittore morirà dieci anni dopo, riuscendo a impalmare la terza moglie, Elena Silovskaja. Fu lei, nel 1963, a raccogliere i suoi antichi racconti, pubblicati sul Lavoratore medico tra il 1925 e il 1926, come Memorie di un giovane medico (che torna oggi da Neri Pozza, a cura di Serena Prina, pagg. 190, euro 15), e a far riemergere dall'oblio il nome di Bulgakov.
Laureatosi in medicina nel 1916, Bulgakov era stato spedito a far pratica a Nikol'skoe, in un ospedale di provincia. Il lavoro, come traspare dai racconti, era devastante: «Da me, alle visite, lungo la pista battuta per le slitte, cominciarono ad arrivare fino a cento contadini al giorno... In poche parole, facendo ritorno dall'ospedale alle nove di sera, non avevo voglia né di mangiare, né di bere, né di dormire. Non avevo voglia di niente, se non del fatto che nessuno venisse a chiamarmi per un parto» (La tormenta). In effetti, «Quando, dopo un anno, Bulgakov venne trasferito all'ospedale di Vjaz'ma, ricevette un attestato nel quale erano elencati gli interventi eseguiti nel corso del suo soggiorno: 211 ricoveri e ben 15.361 visite in ambulatorio. Amputazioni, parti podalici, tracheotomie avevano fatto parte della sua esperienza oltre a un impegno costante nella lotta contro la sifilide» (Prina). La Rivoluzione passò al fianco del dottor Bulgakov come l'alito di un drago: «Ho visto grigie folle che con urla d'incitamento e ignobili imprecazioni rompevano i vetri dei treni, le ho viste picchiare la gente. Ho visto, a Mosca, case distrutte e in cenere. Facce ottuse e bestiali...», così ne scrive, l'ultimo dell'anno del 1917 alla sorella Nadja. Nel 1920 decise di darsi alla letteratura, e di fare razzia delle sue esperienze in camera operatoria. I racconti ospedalieri sono di vivida bellezza, tengono per la gola, perché Bulgakov, con ruvida efficacia, ci mostra i dubbi, le debolezze del medico, gli allucinanti timori durante l'amputazione di una gamba («Presi il bisturi cercando di imitare qualcuno che una volta, nel corso della mia vita, avevo visto praticare un'amputazione...») o una tracheotomia («Mi sentii gelare, e la fronte era coperta di sudore. Mi pentivo amaramente di aver scelto la facoltà di Medicina, di essere andato a finire in quel luogo sperduto. In preda a una furiosa disperazione affondai una pinzetta a casaccio...»).
Anche Anton Cechov, come Bulgakov, era medico, e un medico, il dottor Zivago, è il protagonista del romanzo più emblematico della Russia
sovietica. Negli anni in cui gli fu impedito di pubblicare, segretamente, Bulgakov scrisse Il maestro e Margherita. Dopo aver raccontato i mali degli uomini, narrò il grande male. Fu come il trapianto di cuore di un'epoca.
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