L'Apeirogon è «una forma con un numero contabilmente infinito di lati». Da lontano sembra un cerchio mentre, visto da vicino, ogni suo piccolo frammento sembra una linea retta. Nell'Apeirogon, «ogni luogo è raggiungibile. Ogni cosa è possibile, anche l'apparentemente impossibile». Solo un Apeirogon poteva contenere una storia come quella di Rami e Bassam e delle loro figlie, Smadar e Abir; e solo da un Apeirogon la loro storia può diffondersi ed espandersi, richiamando quell'infinita storia in cui essa ha le sue radici, quella di Israele e della Palestina, degli ebrei e dei musulmani e, ancora più indietro, quella di Gerusalemme, che si perde nella notte della nostra civiltà. Apeirogon (Feltrinelli, pagg. 518, euro 22; da oggi in libreria) è il romanzo, bellissimo, in cui Colum McCann, dublinese ormai da anni newyorchese, racconta questa storia, e lo fa mescolando, talvolta in paragrafi brevissimi, la fiction alla non fiction, la cronaca all'invenzione letteraria, la compassione alla Storia, l'ornitologia ai campi di concentramento, il ritrovamento dei rotoli di Qumran all'ultimo truculento pasto di Mitterrand (a base di minuscoli uccellini, gli ortolani), dal dirigibile che controlla Gerusalemme alle esplorazioni del Mar Morto.
Rami Elhanan è israeliano, «gerosolimitano di settima generazione», graphic designer, «laureato dell'Olocausto» a cui il padre sopravvisse, arrivando in Israele nel 1946. Il 4 settembre del 1997, a ridosso di Yom Kippur, sua figlia Smadar viene uccisa in un attentato suicida a Ben Yehuda Street, a Gerusalemme. Stava per compiere quattordici anni e andava a iscriversi a un corso di danza jazz con le amiche. Morirono in sette, inclusi i tre terroristi. Dieci anni dopo, il 16 gennaio del 2007, Abir esce da scuola, nel piccolo villaggio di Anata, in Cisgiordania, per andare a comprare delle caramelle. Ha dieci anni ed è la figlia di Bassam Aramin, «un palestinese, un musulmano, un arabo». All'improvviso, da una jeep di soldati israeliani viene sparato un proiettile di gomma che perfora il cranio di Abir. L'ambulanza impiega tre ore, fra ritardi continui, per arrivare all'ospedale Hadassah di Gerusalemme, dove Abir muore. Lo stesso ospedale dove era nata Smadar.
La storia comincia dove, per molti, potrebbe essere finita. Inizia con una tragedia doppia, che travolge i due padri, l'israeliano Rami e il palestinese Bassam, a dieci anni di distanza, dieci anni in cui, nota una volta Rami, gli sembra che quel proiettile di gomma abbia continuato a volare nell'aria. Infinitamente, nel tempo e nello spazio. Nell'Apeirogon della Storia, e della storia di Israele e Palestina in particolare, i fili si sovrappongono, si intersecano, spesso sono addirittura invisibili: ed è proprio lungo questi fili che si svolge il romanzo di McCann, anzi, spesso sono i fili stessi a diventare protagonisti. Era già accaduto in Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli, 2010), il romanzo con cui McCann ha vinto il National Book Award e in cui il filo protagonista è quello teso fra le due Torri Gemelle, a centodieci metri di altezza, da un folletto francese, Philippe Petit. Nel maggio del 1987, Petit tira un altro filo lungo la Valle dell'Hinnom: una traversata di trecento metri in cui il funambolo si lascia alle spalle la Città Vecchia di Gerusalemme e, a un certo punto, dalla tasca dei pantaloni (una gamba dipinta coi colori della bandiera israeliana, un'altra con quelli della bandiera palestinese) estrae una colomba. La pace. Secondo Petit, il filo è un ramo d'ulivo. Quarantamila persone lo osservano mentre cammina in volo sul Passato, quello di una valle considerata la porta dell'inferno, dove si compivano antichi sacrifici di bambini al dio Moloch, e verso un futuro immaginario, di una pace che si perde nei fili infiniti dell'Apeirogon. «Petit disse che mentre attraversava la valle riusciva a sentire i suoni dei secoli scorrere sotto di lui». Pochi mesi dopo scoppia la Prima Intifada.
Nell'intreccio imprevedibile dei fili, le armi possono essere diverse. Un giubbotto esplosivo, anzi tre, imbottito di Semtex e poi viti, chiodi, vetro, schegge di porcellana. Eppure il viso di Smadar è rimasto intatto, come per miracolo. Oppure un proiettile di gomma, quelli che i soldati chiamano «pillole di Lazzaro», perché a volte si possono recuperare, e riutilizzare: hanno un'anima di acciaio. Quella che ha sgretolato il cranio di Abir, che sognava di fare l'ingegnere. Poi altre armi, più difficili da maneggiare: «Bassam e Rami giunsero gradualmente a capire che avrebbero usato la potenza del loro dolore come arma». Prima ancora della morte di Abir, Rami e Bassam sono diventati amici. Proprio amici. Hanno fondato una organizzazione insieme, Combattenti per la pace. Una cosa «da folli». Una cosa per cui, spesso, vengono insultati dai loro connazionali e chiamati traditori, spie, ingrati, bastardi (intesi come mezzo ebrei e mezzo arabi). Rami era entrato in un'altra organizzazione, Parents Circle, mesi dopo la morte di Smadar. Bassam aveva iniziato a frequentare il «nemico» dopo essere stato in prigione sette anni. Era stato accusato di terrorismo. Poi, in cella, aveva visto dei filmati dei campi di concentramento e, anziché gioire per la morte di tutti quegli ebrei, aveva sentito qualcosa ribaltarsi nello stomaco. Aveva iniziato a studiare l'Olocausto. L'arma di Rami e Bassam è la loro storia, il dolore indicibile di perdere la propria figlia, uccisa per strada, e di riuscire a raccontarlo. Eliezer Ben-Yehuda, il padre dell'ebraico moderno, a cui è dedicata la via dove è stata uccisa Smadar, sosteneva che ebrei e arabi fossero «una famiglia». E proprio all'incrocio c'è Ben Hillel Street, da Hillel il Vecchio, «autore, nel primo secolo a.C., dell'etica di reciprocità: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Il proiettile ha continuato a volare, come i cinquecento milioni di uccelli che, ogni anno, passano sul cielo di Gerusalemme.
Quel giorno del maggio del 1987, Petit aveva percorso ogni ciottolo e battuto ogni mercato della Città Vecchia, ma non era riuscito a trovare neanche una colomba bianca per la sua esibizione.
Un uomo gli rimediò un piccione dal grigio molto sbiadito, che da lontano dava l'illusione del bianco. Però, una volta liberato, il piccione si era aggrappato prima al funambolo, poi al bilanciere, e insomma non si staccava dal filo: non voleva saperne di volare, chissà perché.
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