«Se si potesse non morire» cantavano i Modà in un Sanremo di diverso tempo fa. Tantomeno è proprio il caso di non morire d'arte, come scrive Ugo Nespolo in uno snello seppur denso pamphlet: Per non morire d'arte (Einaudi, pagg. 140, euro 12), dove l'artista torinese si cimenta con la saggistica e la critica, territorio che gli piace tanto quanto dipingere i suoi famosi puzzle.
Conosciuto dunque per i suoi coloratissimi quadri e per l'abilità di mescolare i linguaggi, Nespolo è attento osservatore di fatti e fenomeni che restituisce con una prosa molto comunicativa in questo simile alla pittura: collabora abitualmente con Il Foglio recensendo mostre e animando temi, dove ricorre alla bisogna a riflessioni filosofiche necessarie per capire a fondo l'annosa questione dell'arte. E sostiene una posizione originale, a metà strada tra l'antimodernismo elitario di Jean Clair e Vargas Llosa e l'eccitazione perenne e artefatta delle mode ipercontemporanee. Rivendica le proprie matrici culturali ma non è troppo nostalgico profeta di se stesso. Considera fondamentale il suo romanzo di formazione, tra Situazionismo, Fluxus, Pop, per poi svoltare nel postmoderno che, questa è un'interpretazione ristretta a pochi, considerato alla stregua delle avanguardie e non un ripiegamento sul passato.
Per non morire d'arte (e aggiungo, di noia) Nespolo ricorre dunque alla scrittura: «Pensare intanto e poi scrivere, raccontare per capirsi e capire è una sospensione necessaria per cercare una luce sia pure flebile e individuale... la scrittura può essere in fondo un quartiere del pensare, un punto d'osservazione privilegiato, la guida a un viaggio non solo personali nelle rutilanti e viscose viscere del favoloso Artworld». Il primato della parola suona come un andar controcorrente rispetto all'andazzo generale della semplificazione estrema, della pappa liofilizzata pronta per tutti senza nessuno sforzo.
In undici brevi capitoli Nespolo ripercorre altrettante tappe fondamentali nella storia dell'arte recente. La Biennale di Venezia del 1964, «colonizzata» dalla Pop Art americana contro cui insorse la critica più prevenuta. L'importanza di far seguire l'azione alla teoria. La rutilante avanguardia patafisica condivisa con Enrico Baj negli anni della giovinezza. La mescolanza di alto e basso. L'opzione minimalista e l'allergia verso manifestazioni mastodontiche ed esteriori, come I sette peccati celesti di Kiefer, Carne y Arena di Inarritu, Floating Piers di Christo (non sono molto d'accordo, ma non importa) a favore di un'arte di sottrazione, viaggiante e portatile nello spirito di Duchamp e della letteratura non-fiction di Vila-Matas. E ancora e sempre gli anni '60 «quelli che davano davvero l'idea di esser tempi straordinari e molto favorevoli nel dar senso al desiderio di riportare alla luce ogni forma di energia e neosperimentalismo» che Nespolo vede radicati soprattutto nell'underground.
Possibile, ci si domanda, che solo ciò che costa è ciò che vale? Che solo il mercato regoli la (presunta) qualità dell'arte? Nespolo risponde con la malinconia della solitudine, l'urgenza di mettersi in salvo anche se è operazione ardua, persino impossibile.
Ci confida l'insofferenza dell'uomo saggio, il «desiderio eclettico che t'impedisce di stazionare a lungo in ambienti troppo frequentati, patire obblighi troppo previsti, subire il soffoco delle pochezze intellettuali o perire al gioco tiranno del mercato che con sufficienza condanna e cancella».
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