Appena due giorni fa si è aperta alla Triennale di Milano la mostra dedicata a Enzo Mari che oggi suona come l'addio al grande maestro del design italiano, scomparso ieri a 88 anni. Un omaggio davvero particolare, affidato alla curatela di Hans Ulrich Obrist (insieme a Francesca Giacomelli), con una lettura che spinge in direzione dell'arte, coinvolgendo nel progetto interventi, tra gli altri, di Tacita Dean, Dominique Gonzalez-Foerster, Mimmo Jodice e Nanda Vigo (morta alcuni mesi fa). In viale Alemagna sono esposti i lavori e i progetti più significativi in sessant'anni di carriera, che da qui in poi osserveremo con più nostalgia.
Aldilà delle biografie ufficiali, esiste il libro Leggenda privata (Einaudi) scritto da Michele Mari, figlio del Maestro e della prima moglie, la disegnatrice Iela Mari (la sua seconda compagna è stata la critica d'arte Lea Vergine), una storia di bellezza straziante dove il tragico di un rapporto difficilissimo si innesta su elementi dal risvolto comico, inevitabili nella vita quotidiana. In pochi hanno scritto così profondamente su equilibri e disequilibri tra padri e figli, una storia da leggere e rileggere.
Sguardo profondo, barba bianca, carattere burbero, Enzo Mari fu uomo il cui carisma si poteva toccare con mano ogni volta che ci parlavi dandogli rigorosamente del lei, intimidente e distante nella sua genialità. Nato nel 1932 a Ceriano, provincia di Novara, si era formato all'Accademia di Brera entrando negli anni '50 in contatto con l'ambiente artistico milanese e in particolare con il gruppo dell'arte cinetica e con Bruno Munari. Designer lo diventa dunque non per mestiere ma per vocazione, cominciando dalla conoscenza dei materiali, convinto di voler unire forma a funzione, in bilico tra paradosso dell'oggetto e necessità di calarsi nel sociale. Controcorrente per principio, Mari detestava la moda del design griffato e la tendenza a considerare tutto design. In uno dei suoi numerosi scritti, 25 modi per piantare un chiodo (Mondadori 2011), riprendeva la componente infantile della disciplina, desunta proprio da Munari: «Vedo giocare i bambini, di fianco al mio tavolo di lavoro, e parlo con loro, raccontando le stesse fiabe che ascoltavo da piccolo. Mi chiedo spesso come farli divertire, così inizio a progettare dei giochi, senza pensare che potranno un giorno essere prodotti industrialmente e venduti». L'uomo avverte la necessità fisiologica di progettare, modificando così il mondo che si trova davanti per tentare di migliorarlo. È una visione anti-intellettualistica e niente affatto elitaria. Proprio perché al design Mari ci arriva attraverso l'arte, che è «sinsemantica e polisemica, cioè ha mille significati». Espone in diverse gallerie milanesi nell'ambito dell'Arte Programmata, teoria per la quale non importa tanto l'oggetto finito quanto il metodo.
Mari ha incontrato e si è relazionato con tutti i personaggi che hanno contribuito alla fortuna del design italiano nel 900. Bruno Munari, che non aveva neppure uno studio e lavorava nel salotto di casa, Bruno Danese, il primo imprenditore illuminato e visionario, Marco Zanuso, Achille Castiglioni ed Ettore Sottsass. Alessandro Mendini disse una volta di lui: «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa».
Vincitore di cinque Compassi d'Oro, il primo nel 1967, l'ultimo alla carriera nel 2011, autore di oggetti (circa 1.500 per le più importanti aziende italiane) che hanno definito il gusto italiano dal secondo dopoguerra in avanti dal vassoio Putrella al cestino per la carta In attesa, dalla sedia Sof Sof al calendario Formosa che può durare per sempre - applica sempre il medesimo principio: «Quando mi si chiede un progetto nuovo, anziché cercare d'inventare chissà cosa, mi limito a mettere i puntini sulle i, tenendo ben fermo un paio di convinzioni: la forma deve essere eterna, fuori dal tempo, libera dalle mode, e la sua qualità dev'essere alla portata di chi fabbrica l'oggetto, come succedeva una volta».
Polemico contro l'eccesso di autorialità del design
contemporaneo a molti giovani fischieranno le orecchie - Mari sosteneva che solo i bambini potranno salvare il mondo. Semplicemente chiedendosi a cosa serve e come funziona. Risposta che nessun intellettuale è mai riuscito a dare.
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