Il mio Conte non è Giuseppe e nemmeno Antonio. Il mio Conte è Paolo. Che sia probabilmente il più grande chansonnier e autore che la canzone italiana abbia mai avuto, per me non c'è dubbio. Si potrebbe citare Battisti, forse, ma poi no, Battisti trattiene le memorie di una decade e parla al cuore soprattutto di chi c'era. Paolo Conte è di più, la sua radice non è un'epoca (usi costumi serate spiaggia chitarra baci vin brulé) ma un mondo.
Non sono un critico musicale. E da critico letterario tutto vorrei fare tranne che recensire testi.
Vorrei provare piuttosto a dire che cos'è un mondo.
Non tutto è un mondo, anzi. Tanti anni fa, quando avevo da poco iniziato a fare il critico teatrale, andai al Teatro Argentina di Roma per assistere a uno spettacolo di Luca Ronconi. Seduto due file davanti a me vidi Ugo Gregoretti. Spero siano in tanti a rimpiangerlo: Ugo Gregoretti era una persona coltissima e geniale, che non solo diceva tanto quello che pensava ma pensava quello che diceva.
Mi presentai dunque a lui, tutto emozionato, gli dissi tutta la mia ammirazione. La sua risposta fu:
«La ringrazio. Tuttavia mi permetta: non si viene a teatro vestiti così».
Non era un appunto di stile, era qualcos'altro. Lui mi conosceva, aveva letto cose scritte da me, mi apprezzava. Perciò trovava imperdonabile il mio abbigliamento casual. I miei abiti non erano brutti, i colori erano bene accostati, ma di lì a poco sarebbe iniziato uno spettacolo di Luca Ronconi, il più grande regista del mondo. Io avevo il mio stile, ma non è sufficiente avere uno stile: occorre essere all'altezza di quello che si fa, e il mio vestiario non era all'altezza. Lo capii allora.
Ecco. Per capire che cos'è un mondo il primo passo è questo.
Paolo Conte iniziò come autore (l'Italia ha tre inni nazionali, uno è Azzurro), poi si mise a cantare in proprio. Le sue prime canzoni memorabili evocavano un ambiente di provincia ricco, non troppo dedito al lavoro, godereccio, tendente al rialzo della pressione arteriosa e alla melanconia.
Ho conosciuto quell'ambiente perché sono nato in mezzo alla Pianura Padana. Ricordo, bambino, le automobili sportive (Giulietta Sprint, Lancia Flaminia Coupé) di proprietà del farmacista o di qualche latifondista, che sfrecciavano d'estate sullo stradone deserto, e il rombo si perdeva insieme con l'immagine traballante sull'asfalto. Ricordo una bella donna di nome Edda. Ricordo gli occhi acquosi, assenti dell'ingegnere, del primario. Tutti con qualche relazione extraconiugale, alcuni abituati al night club. C'erano pugili, si ballava il twist. Il paesaggio era bello soprattutto d'inverno. E Genova o Venezia erano sogni minacciosi anche per noi.
A vent'anni vivevo a Milano. Ritrovai nei primi dischi di Conte le mie impressioni di bambino, e scoprii che non se n'erano mai andate.
Ma un mondo è qualcosa di più. Non basta dipingere figure, bisogna entrarci, essere quelle figure, scoprire la parte non detta, non prevedibile, gli intervalli tra un secondo e l'altro, i pensieri non voluti.
Nei dischi successivi Paolo Conte parla non più di Genova e di Torino, ma si spinge a Parigi, tra gli incas, a Shanghai, gli amanti lasciano i pied-à-terre locali e ballano su ritmi selvaggi o molto esotici. Compaiono torride orchestre, afrori vecchi e nuovi (drogherie, donne africane). Compare Hemingway a innalzare per tutti, astigiani e bresciani, il grande totem del '900: la Morte.
Intanto Conte sviluppa l'arte essenziale del commento. Col passare del tempo le sue canzoni sono sempre meno un composto di musica e parole, si arricchiscono di mugugni, borborigmi, silenzi. Memorie, ire, piaceri passeggeri, fraintendimenti (tantissimi), zii, commedie producono bolle emotive cui voce, parola, musica devono saper alludere, stare all'altezza della passione, dello scatto, della improvvisa malinconia che produsse il primo aleph: ma senza prendere queste cose troppo di petto.
Nulla è mai detto apertis verbis, tutto è commento sottotraccia a qualcosa che non compare sulla scena. Melodie meravigliose vengono sottoposte ad abrasioni iraconde (come in Blue Haways), Conte produce bellezza e poi sembra rovinarla, ma non è così, allude piuttosto al vero indirizzo: con un movimento della testa, un gesto della mano. L'artista è il sarto di un fantasma.
Nel concept album Aguaplano il mondo si riunisce a Rio, intorno a un pianoforte da concerto. Lì si accendono mille passioni che, una volta accese, rendono inutile lo strumento, che finirà gettato in mare. Come nello Scarabeo d'oro di Poe, una volta divampato l'incendio la miccia non è più necessaria.
Non ci sono più, insomma, cinquantenni preinfartuati, cugine prime, giarrettiere, amanti senza mutande, e nemmeno uomini solitari che sollevano il collo del paltò nel vento di Torino, o provinciali che sognano Genova, i suoi lini e le sue lavande chiuse negli armadi, o mariti annoiati dall'anniversario di matrimonio, che sognano Bartali mentre è notte e la campagna abbaia, profumata di chissà cosa. Non ci sono più quadri.
Sono sussulti momentanei, ripensamenti, nostalgie senza senso, frattali che si sottraggono al flusso ordinario del visibile, del registrabile. È il disordine del mondo, con la sua incomprensibile sconnessa bellezza, che chiede all'arte di stare alla sua altezza, di scegliere l'abito adatto.
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