Un esule istriano senatore a vita

Nominare senatore a vita un esule istriano. Un testimone delle foibe, così come è stato fatto per Liliana Segre e la Shoah

Un esule istriano senatore a vita

Nominare senatore a vita un esule istriano. Un testimone delle foibe, così come è stato fatto per Liliana Segre e la Shoah, qualcuno che, come lei, diventi la condanna reale e senza indulgenze dell'orrore di quell'ideologia comunista che ancora oggi trova spazio in simboli di partito, anche nostrani, e classi dirigenti al potere nel mondo. Una proposta che riemerge, incassa qualche pacca sulle spalle e poi torna a sparire nell'oblio a cui l'ha destinata la sinistra, cultura egemone. Perché ci sono vicende storiche che a una nazione, o meglio a un popolo, dovrebbero restare marchiate a fuoco sulla pelle e invece continuano a scivolare sulle coscienze come fossero acqua sulla pietra, per riapparire, quasi fossero un fastidio, magari in quella data a loro dedicata, con una certa sufficienza, nel calendario istituzionale. E così intorno al 10 febbraio (ma solo in certi giornali o in certi dibatti) riecco l'idea di portare in senato un figlio o un nipote di qualcuno catturato dai partigiani, titini e italiani, ucciso con la crudeltà di cui solo loro erano capaci e fatto sparire per sempre in un anfratto carsico. Ed è proprio quel «per sempre» che continua a torturare le anime di chi del racconto di quel sangue italiano, che ha bagnato le terre d'Istria e Dalmazia, ha fatto una ragione di vita. Una nuova morte è la consapevolezza di essere ancora i protagonisti di una verità da infoibare, così come per decenni i loro morti e il loro drammatico esodo non trovarono spazio nei libri di storia scritti dai professori rossi, sacerdoti della cultura d'ispirazione comunista che per tutta la seconda metà del Novecento è stata egemone, colonizzando con violenta arroganza le scuole, le università e tutta l'industria culturale. Per non dire di quell'ancora più esecrabile storiografia cattolica che, per ossequio al più numeroso Partito comunista dell'Occidente, dimenticò lo scempio che della religione fecero gli sgherri di Tito, mentre sadicamente dilaniavano i corpi di miti sacerdoti. Come don Angelo Tarticchio: torturato ed evirato davanti alla madre e alle sorelle, gli misero i genitali in gola e una corona di spine in testa come sfregio alla fede sua e degli italiani di quelle terre. A raccontarlo il nipote Piero, 85 anni, che lo salutò al funerale mano nella mano con il padre. «Un uomo buono, straordinario, caritatevole», commerciante nel paese di Gallesano, a pochi chilometri da Pola, dove solo un anno e mezzo dopo fu preso a casa dai partigiani e fatto sparire in una foiba. Nemmeno un cippo dove pregarlo per il figlio che a ogni ritorno in Istria sceglie la tomba più disadorna e anonima del cimitero per posare un fiore. Sono passati 78 anni, ma le lacrime sono sempre le stesse e se possibile ancora più amare. Perfino oggi che la sua battaglia per erigere un monumento ai martiri delle foibe è finalmente vinta con la costruzione di una stele che lui stesso ha disegnato nei giardinetti di Piazza Repubblica a Milano di fronte alla Stazione Centrale, un tempo (ma solo un tempo) Piazza Fiume. Merito di partiti e giunte di centrodestra, anche se di fatto alla fine il nastro è stato tagliato dall'oggi sindaco Giuseppe Sala, i cui assessori però ben poco fanno per darle lustro.

«Quel piccolo pezzo di terra - si commuove Tarticchio - è diventato per noi la nostra terra: Istria, Fiume, Dalmazia». Sarebbe un dovere offrire magari a lui stesso anche uno scranno in parlamento. Per non uccidere un'altra volta quei martiri dell'orrore comunista.

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