La vita di Nikolaus Lenau riassume, in vitro, quella del poeta romantico canonico. Studi irregolari, morte del padre, nobiltà in crollo, la precisa percezione di essere alieno al proprio tempo, il disordine esistenziale, donne a frotte, l'estro esoterico, la stella del «bel gesto» e del tutto per tutto sul destino bene organizzato, e la fine, ovviamente cupa, con la reclusione in un ospedale psichiatrico, ne fanno il prototipo dell'artista in guerra contro il mondo.
Nato a Csatád, nell'attuale Romania, nel 1802, studi a Vienna, esistenza raminga, Lenau abitava la poesia con l'estremismo degli irregolari, degli obbedienti alla propria allucinata sensibilità: all'impegno politico tipico dei poeti della sua epoca - di solito connesso a un astratto ribellismo -, preferì il disinteresse, l'estraneità, l'apostasia serrata, lo smacco. Si diceva «straniero senza meta e senza patria»: rispetto a Chateaubriand non possedeva il profilo del pirata, dell'avventato; il viaggio in America, così, si ridusse a un mezzo fallimento. Carattere lunare, votato al genio malinconico, con un ego pieno di aghi, Lenau rischia di passare per un epigono: ha scritto un Don Juan, come uno dei suoi miti, George Gordon Byron (di cui imitò l'indole da seduttore, annaffiandola nel cianuro degli amori sciocchi, triti, tristi); ha pubblicato un Faust, nel 1836, cinque anni dopo il capolavoro di Goethe. In realtà, Lenau, proprio in virtù del suo esasperato lirismo, dell'inquietudine inquietante, è un pioniere del moderno: il suo Faust, in particolare, «anticipa di alcuni decenni la critica della cultura e delle ideologie operata da Nietzsche... contrappone la propria anima dionisiaca a quella apollinea del modello goethiano» (così Alberto Cattoi, nell'edizione del Faust di Carbonio Editore, pagg. 260, euro 16, che riprende quella Marietti del 1985).
Così, nel Faust, Lenau allinea una serie di luoghi topici del mito: il confronto con il cadavere, il patto con il diavolo, il cimitero, la «notte di luna», il vagabondaggio nel bosco, la retorica muscolare di Mefistofele, la sapienza schietta della prostituta che alla metafisica degli uomini oppone la verità della terra, civettuola, carnale («cominciavo ad avere paura/ di quello che stavate borbottando, così seri;/ è molto meglio ascoltare la musica dei violini»). Un po' Amleto e un po' Everyman, Don Chisciotte addobbato da Tim Burton, il Faust di Lenau, in realtà, disarmonico, reietto, con un mattatoio nel cuore, è autentico profeta del nostro mondo, questo. Stigmatizza l'epopea scientifica - «Ma cosa ne sai tu della vita? Con tutta la tua scienza anatomica/ non ne sai più di quanto ne sappia un animale» -, l'etica sociale e quella sentimentale - «Non ho nessuna voglia di sposarmi/ la mia vita è un continuo lottare» -, fa il ritratto, terribile, dell'uomo odierno, animato dal «desiderio di annullarsi», dalla «smania impaziente/ di abbattere tutti i limiti e tutte le barriere». Tiene in ostaggio il sacro, che lo massacra - autentico diamante gnostico: «Non sarà che il mondo ha avuto origine/ dal fatto che Dio ha perso se stesso?» -, prevede l'era della censura di massa, della dedizione verso il delatore, del controllo capillare: «dovrete avere/ dei censori a guardia dei pensieri/... un esercito di spie attente alle bocche umane/... leste ad imprigionare/ le parole con le reti del tradimento».
Questo Faust così moderno da apparire postmoderno, scollegato dal creato, infine, riconosce che il sapere è niente, la cultura è inutile - «Anche se riesco ad afferrare il mondo con il pensiero/ esso rimane estraneo alla mia essenza più profonda» -, e soccombe.
Poco dopo aver pubblicato una nuova versione del suo poema e aver contratto l'ennesimo fulmineo, fatuo fidanzamento, Lenau sfinì nella follia: ricoverato a Oberdöbling, presso Vienna, morì, nell'agosto del 1850. Nei ritratti dell'epoca è visto sempre di profilo, con il consueto fazzoletto legato al collo, baffi e capelli scarmigliati, occhi impauriti, esangue. Dopo averli scatenati, non riuscì a domare i propri demoni.
«Era come se, di luogo in luogo, d'esperienza in esperienza, egli tentasse una continua fuga da sé medesimo», ha scritto di lui il germanista Giuseppe Gabetti nel 1933: all'epoca Lenau era letto, studiato (Vincenzo Errante, che aveva tradotto il Faust nel 1920 per Carabba, dedicò un ampio studio a questo svagato «martire della poesia»), amato. Siamo passati da un'era faustiana all'orticaria quando si parla di eroi e di poeti. Per lo più, popolo afflitto da coprofagia digitale, preferiamo gli antidepressivi.
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