Nella cinquina di titoli in corsa all'Oscar per il miglior film, "Il diritto di contare" di Theodore Melfi spiccava come il candidato più improbabile alla vittoria. Non è certo un'opera nata con ambizioni autoriali, né si avvicina a un cinema che potremmo definire di prestigio o in grado di sfidare il tempo che passa, però è un film molto ben costruito, con un trio di attrici in gran forma e che ha il pregio di intrattenere, in maniera convenzionale ed efficace, raccontando una storia appassionante.
Siamo nel 1961, nello stato segregazionista della Virginia. Katherine (Taraji P. Henson), Dorothy (Octavia Spencer) e Janelle (Mary Jackson) sono tre donne di colore che lavorano alla NASA. Sono state reclutate dalla prestigiosa istituzione per partecipare, con il loro ingegno (chi in qualità di matematica, chi di ingegnere, chi di esperta di computer), alla corsa statunitense alla conquista dello Spazio. La loro competenza è però continuamente messa in discussione a causa del loro genere sessuale e del colore della pelle. Vinceranno l'arroganza di colleghi e superiori mostrando abnegazione, dignità e grazia nell'esercizio della propria professione e finiranno per imporsi in un ambiente maschile e maschilista.
"Il diritto di contare" è l'adattamento cinematografico del libro "Hidden Figures" di Margot Lee Shetterly e si è rivelato un enorme successo al box office: solo in USA ha superato i 130 milioni di dollari a fronte di un budget di 25. E' evidente che sia un'opera importante per la comunità afroamericana e non solo per quella, visto l'attuale momento politico.
Il film mostra quanto gli episodi di discriminazione fossero ordinari all'epoca e mette in scena esempi di vessazioni e ingiustizia con tono sobrio: Katherine, ad esempio, non può bere dalla stessa caffettiera dei colleghi e perde mezz’ora al giorno solo per andare in bagno, perché in quello dello stabile in cui lavora le persone di colore non sono ammesse. Sono situazioni spesso esorcizzate da altre scene in cui a farla da padrone è invece la leggerezza: in questo modo il ritmo si mantiene frizzante e la visione del film, in qualche modo, spensierata. "Il diritto di contare" punta, infatti, a essere un prodotto d'intrattenimento anche se è evidente che la storia raccontata costituisca uno spunto di riflessione su argomenti molto seri.
Il film trabocca di contenuti virtuosi e politicamente corretti, alcuni di promettente utilità come l'idea che l'accettazione e l'integrazione passino anche attraverso l'apprezzamento delle qualità e abilità della persona. Il problema è che sono serviti con una buona dose di retorica, sebbene spesso dissimulata a dovere con briose virate, mediante un uso sapiente ora della colonna sonora, ora del montaggio.
Tre menti geniali che più dell'individualismo conoscono il potere dello sforzo comune e che mescolano determinazione, umiltà e generosità per fare la differenza e recare un servizio alla propria comunità e al proprio Paese, sono sicuramente un bel vedere.
Tra i comprimari, si segnalano un valido Kevin Costner e una, opportunamente gelida, Kirsten Dunst.
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