Fitzgerald, lo scrittore perfetto che (non) andò per la sua strada

«You Go Your Way» avrebbe potuto essere il vertice del suo genio. Ma l'alcol e Hollywood lo inchiodarono

Fitzgerald, lo scrittore perfetto che (non) andò per la sua strada

Benvenuti nella vertigine, nella voragine di anni stritolati dal dolore, dalla disillusione, d'incanto voltato in veleno. Nel 1939 Francis Scott Fitzgerald è soltanto un uomo arso dall'insuccesso, caduto dalle stelle alla porcilaia di Hollywood. Annaffiava la frustrazione nell'alcool, tornava a pettinarsi con la dolce scriminatura nel mezzo, dandosi la brillantina sui capelli, come nei ruggenti e ormai arrugginiti Venti per una tizia, Sheilah Graham, d'imprevedibile bellezza e dalle gambe sode, frutto del passato da ballerina. Il destino lo aveva sfacciatamente sputtanato: la Metro-Goldwin-Mayer lo pagava per sistemare le sceneggiature sghembe di Budd Schulberg, borioso venticinquenne, figlio di B.P. Schulberg, il produttore che in Paramount aveva lanciato Ernst Lubitsch, Marlene Dietrich, Shirley Temple. Appena lo vede, Budd non può credere che lui, quel bislacco in dislessia letteraria, quello sciacato, sia davvero Lui. «Il produttore non era soddisfatto di una mia sceneggiatura e mi aveva fatto chiamare per avvertirmi che avevano messo un altro a lavorare su ciò che avevo scritto. Quando ho chiesto chi fosse, mi ha risposto che era Francis Scott Fitzgerald. Ho pensato che scherzasse, credevo che Fitzgerald fosse morto, ma il produttore mi disse che non soltanto era vivo, ma si trovava nella stanza accanto, intento a leggere il mio lavoro». Semplicemente, nel 1939, ottant'anni fa, Francis Scott Fitzgerald era morto. Nel 1939 Fitzgerald era morto da cinque anni, da quando, nel 1934, aveva pubblicato, con modesto clamore, Tenera è la notte. Pareva lo scrittore di un'epoca egizia, di un millennio prima, troppo vecchio per essere vivo. Morirà, Fitzgerald, lo scrittore del romanzo perfetto, pochi giorni prima del Natale del 1940, per un attacco al cuore, già martoriato dai ragni dell'oblio. Budd Schulberg gli sopravvisse a lungo, fino al 2009, scrivendo una manciata di ottimi film (tra cui Fronte del porto, per cui vince un Oscar), facendo di Fitzgerald il protagonista occulto di un bel romanzo, I disincantati, pubblicato nel 1950 (l'edizione Sellerio è del 2007), crudele quanto serve, un buco nero nel corpo fluorescente della Generazione Perduta.

La vita letteraria di Fitzgerald comincia un secolo fa: nel 1919 termina Di qua dal Paradiso, Scribner lo rifiuta, ma Maxwell Perkins, il guru della letteratura americana, il re Mida degli editor, ferma tutti, altera l'ordine dei talenti, fa firmare il contratto allo scrittore. Il romanzo, edito l'anno dopo, è un successo che consente a Fitzgerald d'impalmare la capricciosa Zelda e di ergersi imperatore dell'Era del Jazz. Il resto è la storia di una vita di luci e tragedie, un decennio vissuto nella beatitudine della dissipazione. «Fitzgerald non ha ancora quarant'anni, eppure è un uomo ridotto allo stremo, vecchio e malato, che ha tutto provato: il successo, la ricchezza, le follie di una vita senza limiti; il declino... la miseria», scrive Fernanda Pivano. Ha scritto il romanzo perfetto, Fitzgerald, Il grande Gatsby (per Marietti 1820 è pubblica una nuova edizione del libro, con una nota di Carola Barbero, pagg. 200, euro 16), un diamante levigato, nato dal nulla di un bagliore, adorato da Thomas S. Eliot, da J.D. Salinger (che si riteneva il successore di Fitzgerald), da Richard Yeats («fu un miracolo, un trionfo di stile»), marginalizzato come un turgido gioco eccentrico da Elio Vittorini e dai letterati di sinistra, impegnati a esaltare, piuttosto, la letteratura americana impegnata e proletaria (sul punto si veda il libro di Antonio Merola, Francis Scott Fitzgerald e l'Italia, Ladolfi Editore, 2018). Lo scrittore della «luce verde», del «futuro orgiastico», del «bisbiglio tra le stelle» e dell'inquietudine albina, velata di aristocratici abissi, sibilava borghese vanità all'orecchio dei neorealisti. Così riassume il suo genio fuori dalle mode Pietro Citati: «Nella narrativa moderna Fitzgerald inaugura una cadenza narrativa nuova: snob, mondanamente ironica, ambiguamente elusiva, intelligente e sofisticata... Con una grazia sovrana, quest'ultimo allievo di Keats, questo grande uccello elegante e ferito, frivolo e doloroso, lasciava su tutte le cose la propria impronta indelebile».

Eppure. Nella stalla hollywoodiana, l'ultima spiaggia per Fitzgerald, un lavoro che detesta, spendere il proprio talento per testi altrui, ormai privo di estro, in depravazione alcolica, lo scrittore che aveva scritto il romanzo perfetto tenta il Grande Romanzo Americano. Siamo negli anni cruciali, tra il 1938 e il 1939. Con la mano sinistra Fitzgerald firma la riduzione di un romanzo di Erich Maria Remarque, Tre camerati, scribacchia ma non è accreditato Donne di George Cukor, abbozza qualche dialogo per Via col vento, poi gettato nel cestino. «Ma proprio in quegli anni, dal 1938, Fitzgerald ha l'idea per un nuovo romanzo», scrive Anne Margaret Daniel, storica della letteratura, biografa di Scott. I risultati della sua ricerca sono pubblicati su Literary Hub con un titolo tonante, The Novel F. Scott Fitzgerald Never Wrote, e un paio di documenti sugosi. Si tratta del piano, appunto, appena abbozzato, di un romanzo. La storia ha questa cornice: «In questo romanzo voglio mostrare. 1. Uno squarcio su una strana coppia; 2. Come si sono conosciuti; 3. La decisione, a causa di un vecchio amore di lei, di divorziare». Questa vicenda minima, ridotta all'osso di un sketch, s'incunea nella grande Storia. Secondo un piano, dettagliato in forma manoscritta, Fitzgerald vuole articolare la storia d'amore tra il 1929 (parola chiave «Boom») e il 1930 («Depression»: l'esplosione della Grande Depressione) fino al 1938 («Recession»: «si tratta della recessione economica che accade dopo la ripresa del 1937, una depressione nella depressione che continua fino all'ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra», spiega la storica). In mezzo, c'è di tutto, dal caso Wallis Simpson, per cui, nel 1936, Edoardo VIII decide di abdicare dal trono inglese, alla reggenza, dal 1935, di John Edgar Hoover nel palazzo dell'Fbi, alla cronaca delle deflagranti alluvioni in Connecticut, che provocarono la morte di decine di persone. Un Henry James nel corpo di James Ellory, verrebbe da dire. Il romanzo in itinere ha una fioriera di titoli. Divorziati, Separazione, Estranei, Vite diverse, Vai per la tua strada. Quest'ultimo è quello che Fitzgerald gradiva di più. Scrive con calligrafia da adolescente impunito, Fitzgerald, che abdica a questa idea per scrivere, disordinatamente, The Last Tycoon. Il romanzo, incompiuto, fu pubblicato postumo, dando forma all'agiografia sponsorizzata da Edmund Wilson nel 1941 e poi dal film omonimo di Elia Kazan del 1976, scritto da Harold Pinter, con cast pazzesco: Robert De Niro, Tony Curtis, Robert Mitchum, Jack Nicholson, Jeanne Moreau dello scrittore inafferrabile, fugace, incompreso. E se fosse riuscito a scrivere questo grande romanzo, You Go Your Way, non dovremmo ribaltare la cartografia della letteratura americana?

Misurini e classifiche non servono. Ho sempre immaginato Francis Scott Fitzgerald vestito di bianco, come il suo eroe, questo Moby Dick del lusso e dello sperpero e del fascino, Jay Gatsby («vestiva di bianco e possedeva una roadster bianca»).

Fitzgerald era fatto per abbagliare, non per restare i suoi libri fiammeggiano, non si leggono, bruciano. Non è un caso se Zelda, svanita nella mania nostalgica, morì nell'incendio che il 10 marzo 1948 sbriciolò l'ospedale dove era ricoverata.

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