Giovanni Volpe, l'ingegnere che fece quadrare le destre

Nel 1962 fondò una casa editrice per tutti gli autori non conformisti. Oltre il catalogo, resta la sua lezione

Giovanni Volpe, l'ingegnere che fece quadrare le destre

C'è stato un tempo, e non è una favola, in cui è esistita anche una destra che leggeva. E che pubblicava libri e riviste, che faceva discutere e arrabbiare, che cresceva giovani intellettuali. Che faceva - con una brutta parola - «cultura». E dentro quella destra (un mondo che non aveva niente a che fare con ciò che oggi si intende per «destra»: era solo qualcosa sopra cui si metteva per comodità o per sprezzo l'etichetta «neofascismo») c'era un elegante signore, colto, dal carattere - diciamolo pure - non facile, addirittura ostico. Uno che decideva di testa sua: un ingegnere dalle buonissime letture, cattolico, monarchico, «liberalfascista», che a un certo punto della vita, sul tardi, a 56 anni, si mise a fare l'editore. Si chiamava Giovanni Volpe (1906-84).

Di Santarcangelo di Romagna, sanguigno e nostalgico, figlio di tanto padre (Gioacchino fu grandissimo storico e fondatore della medievistica italiana), Giovanni Volpe tenne insieme, col collante dell'antiprogressismo e di un indubbio carisma, un variegato gruppo di scrittori, filosofi, giornalisti, storici, politici che veleggiavano tra la destra missina, quella cattolica, quella nazionale e poi quella sociale. Negli anni del centrosinistra e dei pontificati «progressisti», per reazione cattofascista Volpe fondò nel 1962 una casa editrice. All'inizio la chiamò «Il Quadrato», poi si accorse che il nome era già quello di un editore di pubblicazioni pornografiche e allora coprì la sigla sulle prime copertine con delle pecette che riportavano il nuovo nome: «Volpe editore». Poi arrivarono due riviste culturali (La Torre e Intervento, diretta prima da Fausto Gianfranceschi e poi da Francesco Perfetti). Creò una Fondazione in onore del padre, del quale ripubblicò i libri più famosi. E organizzò per anni incontri e convegni cui parteciparono studiosi come Julien Freund e Bertrand de Jouvenel, Maurice Bardèche e Armin Mohler, De Felice e Rosario Romeo, nomi che influenzarono la «cultura di destra» degli anni Settanta. Morto lui (c'è chi ricorda lo sguardo con cui incenerì un incauto Mario Bernardi Guardi che un giorno azzardò un «Ingegnere, dovrebbe iniziare a pensare a quando Lei non ci sarà più...»), finì tutto. Era il 1984.

Finito tutto, cosa resta oggi? Se lo chiede uno di quei giovani che allora frequentavano i seminari estivi per studenti universitari organizzati da Giovanni Volpe, a partire dal 1973, a Milano Marittima, non lontano dal castello di famiglia, a Santarcangelo: Maurizio Cabona. Domani, a Cortemaggiore (Piacenza), all'interno del festival Perimetro dell'Occidente, ricorderà l'editore Volpe e i non-conformisti degli anni Settanta con un intervento dal titolo La sera andavamo in via Mercati. Che era la strada in cui, a Roma, ai Parioli, aveva sede la casa editrice Volpe e da cui passò - come dice Cabona - «la meglio gioventù neofascista italiana». In realtà attorno a Giovanni Volpe, che era la sintesi di tante destre, ruotavano monarchici e nazionalisti, moderati e postfascisti, tradizionalisti e nostalgici. Come ha detto una volta un altro di quei giovani, Marcello Veneziani, «Era una destra culturale, non politica e tanto meno partitica». Ne facevano parte cattolici come Augusto Del Noce, Domenico Fisichella, Thomas Molnar e Gianfranco Morra. Liberali come Sergio Ricossa, Franco Valsecchi e Vittorio Enzo Alfieri. E poi coloro che avrebbero fatto parte della Nuova Destra: Maurizio Cabona appunto, e poi Stenio Solinas (che per Volpe curò l'antologia della stampa fascista dal 1919 al 1925, Alla conquista dello Stato), Gennaro Malgieri, Enrico Nistri, Marco Tarchi... Nomi che sarebbero sempre stati «al di là della destra e della sinistra». Eccolo, allora, il lascito più importante di Giovanni Volpe: l'essere stato il crocevia culturale di tutte le destre possibili: da quella ultracattolica a quella nazional-risorgimentale a quella reazionaria a quella «sociale».

Poi, certo, resta il catalogo. Fatto da nomi pesanti. Come gli autori francesi delle edizioni La Table Ronde, come Pierre Andreu, Abel Bonnard, Robert Brasillach, e poi come Ernst Jünger, Vintila Horia o Julius Evola, e poi come Sigfrido Bartolini, Piero Buscaroli, Alfredo Cattabiani o il giovane Adriano Romualdi (che curò, fino alla morte, nel '73, la collana «Collezione Europa»)... Ottimi libri, mal distribuiti (al contrario delle concorrenti edizioni del Borghese che potevano contare sull'appoggio delle sedi dell'Msi): erano di fatto venduti porta-a-porta grazie a una rete di giovani volontari. Trovarli nelle librerie era quasi impossibile. E il libro che vendette di più fu Democrazie mafiose di Panfilo Gentile, uscito nel 1969, ma solo perché Indro Montanelli ne scrisse in un elzeviro sul Corriere della sera.

Il testo più scomodo fu invece La Guerra rivoluzionaria (1965) che raccoglieva gli atti del convegno di studio organizzato dall'Istituto Alberto Pollio svoltosi a Roma nel maggio 1965 all'Hotel Parco dei Principi: probabilmente l'ingegner Volpe - a cui interessava più le cose religiose che quelle militari - lo pubblicò per fare un favore a qualche generale dell'Esercito, senza sapere bene di cosa si trattasse. Resta il fatto che libro finì al centro di tutte le ricostruzioni della magistratura sulle trame golpiste ed eversive dell'Italia del decennio successivo. E Volpe divenne l'editore della «strategia della tensione». Lui ci scherzava: «I magistrati mi scrivono perché ne vogliono una copia, gratis... Ma se non lo vendo a loro, a chi lo vendo un libro così?». E poi, certo, ci fu anche la collana «La critica alla democrazia», ideata da Giuseppe Prezzolini: libri «per lettori non succubi del mito democratico», con testi di Bernanos, Drieu La Rochelle, Julius Evola, Maurice Bardèche... Autori conservatori che sfatano - ecco un tema molto attuale in tempi di populismo e democrazia diretta - tutti i luoghi comuni sulla democrazia come «miglior sistema politico» possibile.

Giovanni Volpe volle fare una vera battaglia culturale, e dal punto di vista politico - come ricorda Francesco Perfetti, che con lui

lavorò e litigò - «era più liberale di quanto si pensi: fu un editore eclettico di un destra non classificabile». Fu, di certo, un punto di riferimento di una cultura che era effettivamente, e in parte si riteneva, sommersa.

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