La Guerritore recita Oriana E finisce per tradire la Fallaci

Al "Piccolo" di Milano va in scena "Mi chiedete di parlare". Lo spettacolo sulla scrittrice cade nel solito equivoco (voluto): attribuire le scelte "scorrette" degli ultimi anni alla sua malattia

La Guerritore recita Oriana  E finisce per tradire la Fallaci

Il palco del Piccolo Teatro Grassi di Milano è molto spoglio. È la casa newyorchese di Oriana Fallaci, ormai abbandonata. Sono ben visibili, sotto il cellophane, gli amati libri e la macchina per scrivere. Monica Guerritore, nei panni della giornalista, tiene la scena in solitudine quasi assoluta, accompagnata da una comparsa e da voci fuori campo. Una scelta non casuale, visto che la solitudine e la malattia degli ultimi anni sono una delle chiavi di lettura del personaggio Oriana Fallaci. L’altro, parte di capire, è la distanza tra Oriana (la donna) e Fallaci (il personaggio pubblico).

Mi chiedete di parlare - scritto, diretto e interpretato da Monica Guerritore (fino al 15 aprile) - ha spunti di notevole interesse, oltre a poter contare sull’ottima interpretazione della mattatrice. Viene fuori bene la convinzione della Fallaci di coincidere totalmente con la propria opera; il coraggio di fronte alla morte; il disprezzo per l’ipocrisia; il dolore per la scomparsa dei propri cari, dalla madre, in particolare, a Panagulis; la lotta coraggiosa contro il cancro; il disprezzo per ogni forma di totalitarismo: nazifascismo, comunismo, fondamentalismo islamico.

Verso la metà dello spettacolo, molto breve (poco più di un’ora), qualcosa incomincia a scricchiolare. La Fallaci che assiste all’11 settembre è una donna che si lascia sopraffarre dalla rabbia, al punto (letteralmente) da «sragionare». Siamo dunque alle solite? Esistono una Fallaci buona e una Fallaci cattiva? Che sia un effetto voluto o meno, nella testa dello spettatore si insinua il sospetto che i libri posteriori all’11 settembre 2001 siano il frutto di una vittima della malattia e della solitudine. Una donna che, secondo la Guerritore, alimenta il suo mito lasciandosi «arruolare senza appello tra le truppe di una destra oltranzista» (così l’attrice sul Corriere della Sera, presentando lo spettacolo). Tirare in ballo la malattia di una persona per interpretarne l’opera, col chiaro intento di ridurla a un incidente di percorso, è un’operazione molto discutibile. Qui poi siamo di fronte a un falso storico. Come può testimoniare chiunque abbia lavorato con la Fallaci in quegli anni, la scrittrice era lucida e convinta di quello che faceva. Nonostante la malattia la facesse soffrire, fino all’ultimo la Signora ha lottato come un leone per non lasciarsi sopraffare. Riuscendoci. L’idea che potesse essere arruolata da qualcuno quasi a sua insaputa è inverosimile.

Quel «qualcuno» si sarebbe beccato una lavata di capo transoceanica da tramandare ai nipoti come leggenda di famiglia. In realtà, non c’è una «vera» Fallaci, quella moderna e illuminata delle battaglie libertarie della gioventù, diversa dalla futura autrice della Rabbia e l’Orgoglio. Tra l’una e l’altra non c’è alcuna soluzione di continuità. La lotta contro l’islam, lungi dall’essere lo sfogo di una donna esacerbata dal dolore, è una guerra alla teocrazia introdotta subdolamente nei Paesi democratici. Posizione del tutto coerente con gli scritti precedenti della Fallaci, basta dare un’occhiata alle pagine famose dedicate ad Arafat, a Khomeini e a Gheddafi (per non dire di Insciallah). La Fallaci non intendeva rinunciare al liberalismo, all’individualismo, ai pilastri della nostra civiltà. Era questo che cercava di spiegare all’Europa e agli Usa in bambola. Lo faceva con l’invettiva, il che non significa affatto «sragionare».

Che sia (anche) questa la chiave di lettura dello spettacolo, purtroppo, è confermato dalla Guerritore dopo la chiusura del sipario, quando, rivolgendosi al pubblico, dice di voler restituire «respiro» umano a una donna, la Fallaci, a cui, da un certo punto

in poi, avevano imposto un’armatura da combattente. A noi sembra che alla Signora non si potesse imporre nulla, e che non avesse alcun bisogno di vedersi restituire un «respiro» umano che in realtà non aveva mai perduto.

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