Poco si sa della vita reale di William Shakespeare (e perfino della sua identità...) e ancora meno si sa di Hamnet (1585-1596), l'unico figlio maschio avuto dalla moglie Anne Hathaway, gemello di Judith, fratello minore di Susan, morto per cause «misteriose» nell'agosto dei suoi undici anni. Un ragazzino la cui esistenza, secondo Maggie O'Farrell, per secoli è stata «ridotta a una nota a piè di pagina»; eppure, per la scrittrice nata in Irlanda del Nord che oggi vive a Edimburgo con i tre figli, «la sua morte è stata importante, e la sua vita è stata importante: senza di lui non ci sarebbero Amleto e La dodicesima notte» e, quindi, era tempo che il piccolo Hamnet uscisse dall'oscurità e tornasse a «essere centrale». Come nel bellissimo Nel nome del figlio. Hamnet (Guanda, pagg. 350, euro 19), un romanzo «familiare», fatto di magia e di tensione, laddove la famiglia, di cognome, fa Shakespeare, e abita in Henley Street, a Stratford-upon-Avon, alla fine del Cinquecento...
Come ha deciso di scrivere del figlio di Shakespeare?
«Ne ho scritto a lungo, nella mia mente, ma ho dovuto aspettare che mio figlio superasse gli undici anni, come per una superstizione. La prima volta che lo sentii nominare fu a scuola, da ragazzina: il mio insegnante, meraviglioso, ci disse che Shakespeare aveva un figlio, che era morto quattro anni prima che lui scrivesse Amleto».
La colpì già allora?
«Subito. Poi, quando scoprii che dell'uomo Shakespeare sapevamo così poco, mi sembrò che nel suo eroe, in quella che è la sua tragedia più celebre, lo potessimo finalmente vedere, come un padre che soffre».
Descrive la vita quotidiana della famiglia nel dettaglio. Quante ricerche ha fatto?
«Ci sono moltissimi libri sulla vita ai tempi di Shakespeare e di Elisabetta I, ma riguardano quella dei ricchi, non dei contadini. Ho coltivato un mio giardino elisabettiano, ho frequentato un corso sulle erbe medicinali, ho visto come si pratica la falconeria, ho letto erbari e libri di falconeria dell'epoca».
La figura della moglie di Shakespeare è centrale. La chiama «Agnes», perché?
«Volevo che il romanzo fosse solo su padre e figlio ma, quando ho visto come la moglie è stata bistrattata nella storia, mi sono arrabbiata. Su di lei hanno scritto di tutto, che l'avesse indotto a sposarla con un trucco, che fosse brutta...».
Non è vero?
«Nell'unico ritratto che ci rimane è molto bella. Leggendo il testamento del padre di lei, che era un fattore molto rispettato, ho scoperto che il suo vero nome era Agnes: perfino quello era stato travisato. Era anche diventata una imprenditrice e produceva birra con successo, una cosa che mi è piaciuta molto».
È possibile che Hamnet sia morto di peste?
«Non sappiamo come sia morto, però c'è un fatto: Shakespeare non parla mai della peste, il che è straordinario, se si pensa anche a quanto l'epidemia colpì il mondo del teatro».
Perché Hamnet è così importante?
«Allora i ragazzini morivano spesso. Ma che, nei libri dedicati a Shakespeare, non si immagini la possibilità di un legame fra la morte del figlio e il suo lavoro, mi sembrava strano: non riesco a immaginare che sia un caso che uno scrittore chiami il suo personaggio più importante come il figlio morto».
I nomi «Hamnet» e «Hamlet» erano intercambiabili?
«Nei registri dell'epoca sì. L'idea che Shakespeare non sia stato colpito dalla morte del figlio perché si trovava a Londra è ridicola. Se leggi Amleto con il figlio in mente, allora diventa il messaggio di un padre che vive ancora in questo mondo a un figlio che si trova in un altro...».
Quale messaggio?
«Quanto è disperato il giovane principe di rivedere il padre, quanto gli manca, quanto è dolorosa la sua morte. Spezza il cuore. E poi le ultime parole del fantasma del padre, ricordati di me. Letto così, Amleto è un memoriale per il figlio. E anche La dodicesima notte, con la separazione dei gemelli, se si pensa ai suoi figli è straziante».
Nel suo romanzo, Shakespeare resta l'Innominato.
«Il suo nome è pericoloso, ciascuno ha una associazione in mente; e poi volevo che ci si dimenticasse l'icona letteraria e lo si vedesse come un uomo. Scrivere il suo nome comunque mi sembrava ridicolo...».
E scrivere di lui non le faceva paura?
«Sì. Avevo paura, perché è quasi sacro, ma sapevo di voler raccontare una storia diversa. Per me il dramma più grande della sua vita è accaduto fuori dal palcoscenico, e questo dramma non era stato ancora raccontato. In un certo senso, è anche un romanzo sul perché abbiamo bisogno dell'arte, e di come lui sia stato capace di far fronte al dolore, creando».
Il dolore è centrale. Come ha fatto ad affrontarlo?
«La paura che un figlio muoia è qualcosa che ogni genitore può immaginare, e provare, nel profondo del cuore.
Credo che il dolore sia l'altro volto dell'amore e quindi sia possibile immaginare, cogliere un assaggio di quella paura, che è la paura con cui tutti noi dobbiamo vivere. Però le due scene cruciali, quella della morte di Hamnet e quella della sua sepoltura, le ho scritte in giardino. Non riuscivo proprio a stare dentro casa».
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