Henry James, la rivoluzione del romanzo preso in parola

I suoi libri sono lunghi monologhi di un affabulatore che anticipano il «flusso di coscienza» di Joyce e Svevo. Come sapeva bene la sua segretaria dattilografa

Henry James, la rivoluzione del romanzo preso in parola

«L'esperienza non è mai limitata e non è mai completa, è un'immensa sensibilità, una specie di enorme tela di ragno con fili della seta più sottile, sospesa nella stanza della coscienza, che afferra ed immette nella sua rete ogni particella portata dall'aria». Non siamo ancora, cronologicamente, al «flusso di coscienza» di Joyce e Svevo, ma siamo, metodologicamente, già oltre. Perché queste parole che Henry James pronuncia sul londinese Longman's Magazine nel settembre del 1884 disegnano perfettamente non soltanto il James «naturalista puntuale e disciplinato che raggiunge la sua apoteosi in Ritratto di signora», datato 1881, come dice Gore Vidal, ma anche «il Gran Simulatore, il mago che, a differenza di Prospero, invece dello scettro rompe una coppa d'oro», cioè l'ultimo James.Per intenderci, quello che Philip Roth definisce, con elegantissima immagine, dispensatore di «merda policroma». Il lamento dell'autore di Lamento di Portnoy verte sulla verbosità della prosa jamesiana. Dato certo, incontrovertibile, ma da che pulpito viene la predica, verrebbe da esclamare ripensando proprio al monologo di mister Alexander Portnoy di fronte al suo psicanalista, il dottor Spielvogel (e non solo).

Non lo esclameremo ma la mettiamo agli atti, l'elegante espressione di Roth, utile quantomeno per affrontare di petto, a un secolo dalla morte di James, la damnatio memoriae che ancora colpisce gran parte della sua produzione, in particolare quella della «major phase» dei primi del Novecento: Le ali della colomba, Gli ambasciatori e La coppa d'oro evocata da Vidal. No, Henry James non è il Proust anglosassone, non veste il pigiama fatato del sogno e del ricordo, la sua tela di ragno è a due dimensioni, le manca la profondità del Tempo, quindi la prospettiva. Tuttavia ha compiuto, prima di Proust, la rivoluzione del romanzo novecentesco: porre la parola, pur se ridondante, barocca, bulimica, al centro della scrittura. Pensiamo a La fonte sacra, sorta di detective story senza «caso», senza «colpevole», senza «indagine» e dunque senza «soluzione» (di continuità) nel fluire dei dialoghi. Qui il mistero sta nella coscienza stessa del narratore, non a caso anonimo, quindi accreditabile di autobiografismo. E pensiamo poi all'elisione dei due addendi nella somma che è l'altra cifra distintiva di James: America + Europa. Come emerge soprattutto in Gli ambasciatori, ora riproposto da Elliot (pagg. 568, euro 22, traduzione di Marcella Bonsanti)

L'americano in Europa, scriveva Donatella Izzo nel suo saggio del 1981 sull'autore, «costituisce (se si eccettua l'unico antecedente di rilievo, il Marble Faun di Hawthorne) una creazione originale di James». E negli Ambasciatori la missione a Parigi del grigio Strether, direttore di una rivista culturale dell'immaginaria Woollett, cittadina del Massachusetts, cioè riportare a casa Chad, figlio della vedova Mrs. Newsome, si sviluppa come una farsa (seria) da cui emerge, sullo sfondo del confronto culturale e di costumi fra il Vecchio e il Nuovo Mondo, il fallimento esistenziale del povero inviato.Si sentiva come lui, Henry James, lo scrittore che più di tutti gettò un ponte sull'Atlantico? Non proprio. James non fu mai uno sradicato, dopo il trasferimento definitivo, anche se punteggiato da qualche momentaneo ritorno, in Europa. Non lo fu per il semplice fatto che l'unica sua patria era la Parola: pronunciata, ascoltata, scritta. Infatti i critici più avveduti interpretano l'intera sua opera come puro teatro, nonostante il sostanziale fallimento come drammaturgo.E la Parola si prende la scena nel gustoso memoir di Theodora Bosanquet, la ragazza che gli stette accanto negli ultimi anni in qualità di fidatissima e lodatissima dattilografa.

Henry James al lavoro esce ora per la prima volta in italiano da Castelvecchi (pagg. 62, euro 9,50, traduzione di Chiara Rea) ed è un bel modo di ricordare lo scrittore, morto a Londra il 28 febbraio del 1916. I due si conobbero nel 1907. James stava rivedendo tutti i suoi libri per la New York Edition, quella definitiva: gli occorreva dunque una ribattitura dei testi che non poteva fare in proprio, visto il fastidio al polso che lo teneva lontano dall'adorata Remington. Impegno immane e, diciamolo pure, oltremodo palloso. Ma Theodora, sorprendendo il suo principale, s'immolò volentieri. E con successo. «Mi sembra che tutto si dipana molto più sicuramente attraverso la bocca che attraverso la mano», le disse James. Detto fatto.

La Parola esce torrenziale, incessante, per ore e ore dalla bocca dello scrittore e si deposita sugli alacri polpastrelli di miss Bosanquet. «Lo so che quando detto sono troppo prolisso», si scusava lui, ma continuava a parlare e a passeggiare nella stanza della dimora di Rye, non distante da Londra. «Gli aggettivi sono lo zucchero della letteratura e gli avverbi il sale», chiosava. «Era dipendente dalla conversazione, ma doveva essere una conversazione erudita e almeno un po' intelligente», rammenta lei. E aggiunge: «Fino allo scoppio della Grande Guerra non fu mai spinto a pronunciare un'opinione forte su questioni che esulassero dalla sua sfera personale».Lui le parla di Flaubert, di Longfellow, di Turgenev.

E lei ritrae così l'autore di Giro di vite: «La sua utopia era una sorta di anarchia in cui nessuno sarebbe stato responsabile per un altro essere umano ma solo per la propria indole civile». Stai a vedere che Henry James non era la vecchia zia chiacchierona disprezzata da quella malalingua di Philip Roth...

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