Violet Rue porta il suo destino già scritto nel nome. È l'ultima dei sette figli di Jerome e Lula Kerrigan, cattolicissimi (la madre ha rischiato di morire nelle ultime tre gravidanze, ma le ha portate tutte a termine), di origine irlandese, una grande famiglia che abita a South Niagara, stato di New York, in una casa non bellissima, ma con un terreno enorme, che arriva fino allo strapiombo sul fiume Niagara. A Violet, la più piccola, la preferita di papà Jerome, bello e iracondo, amante dell'alcol e delle donne, è stato aggiunto quel vezzeggiativo «Rue», per il ricordo di una vecchia canzone irlandese, ma il suo essere così speciale è soltanto una illusione: è proprio quel «Rue», il rimpianto, a segnare la vita di Violet Kerrigan, rimpianto per la famiglia perduta, per la casa lontana, per l'esilio forzato, per la distanza che è costretta a mantenere dai suoi cari, per una vita che non sembra mai riuscire ad afferrare. Rimpianto per una colpa che è sua, ma non è sua. E rimpianto, anche, per un'infanzia «felice», nonostante possa sembrare il contrario (il padre che trattiene a stento la violenza con le figlie femmine, ma non con i maschi; la sottomissione della madre; i silenzi, i tradimenti; il nonno dispotico che vive in giardino); ma spesso pare più felice, nel ricordo, ciò che si è perso per sempre.
L'infanzia di Violet Rue Kerrigan finisce quando ha 12 anni e sette mesi. È il novembre del 1991 quando accade l'«incidente»: un ragazzo di colore, Hadrian Johnson, viene picchiato a morte e lasciato agonizzante sul ciglio di una strada. Violet sa che i suoi due fratelli, Jerome Jr. e Lionel, sono coinvolti, perché li ha visti, quella sera, rientrare al buio e cercare di ripulire una mazza da baseball, quella con cui hanno fracassato la testa a Hadrian. Hadrian aveva 17 anni e una sola colpa, quella notte: trovarsi in bicicletta lungo la stessa strada che Jerome Jr., Lionel, il cugino e un amico stavano percorrendo in macchina, ubriachi e su di giri. Ed è per la confessione, quasi involontaria, di Violet, che finiscono tutti in galera.
È così che Violet Rue, la preferita, la piccola da coccolare, diventa un «topo», marchiata dell'infamia peggiore, che non è uccidere un ragazzo che non ha fatto niente, bensì tradire la propria famiglia, poiché dalla famiglia, questa è la prima regola, non si va mai «fuori». Chi ne esce, è perduto. È un topo schifoso. Violet Rue è la protagonista del nuovo romanzo di Joyce Carol Oates, che in italiano ha il titolo-confessione Ho fatto la spia (l'originale è My Life as a Rat, «la mia vita da topo»; uscirà giovedì 14 maggio, pubblicato da La nave di Teseo): è Violet a raccontare il suo esilio dalla famiglia, lungo quindici anni e costellato di infelicità, abusi, tradimenti ulteriori, delusioni, cadute e, sempre, una capacità di rialzarsi quasi istintiva, quasi contro la propria volontà, come se il suo destino fosse stato travolto dalle acque impetuose del fiume Niagara che, appena prima del delitto, sembrano serpenti color melanzana, un segno inquietante di presagio (oltre che di inquinamento chimico). Quella corrente tumultuosa non lascia mai più i suoi sogni, i suoi desideri, che hanno un luogo di partenza e di ritorno, la casa di famiglia al 338 di Black Rock Street, dove il cerchio comincia e si chiude: del resto, «i genitori non sanno niente. Non possono nemmeno immaginarsela. La vita (segreta) delle figlie, adolescenti. Siccome siamo tranquille, o (apparentemente) docili, siccome sorridiamo a comando e sembriamo felici, siccome non diamo preoccupazioni, allora pensano magari che la nostra vita interiore sia placida, e non vorticosa e ribollente e terrificante come il fiume Niagara quando acquista velocità nella sua corsa verso le cascate».
Ho fatto la spia è un romanzo di dolore, di ferite messe a nudo in maniera così cruda che l'intento di Joyce Carol Oates sembra proprio quello di voler vedere sanguinare, di colpire senza lasciare il tempo di riprendere fiato. South Niagara è una cittadina non lontano da Lockport, nelle campagne dello stato di New York dove la scrittrice è cresciuta, in quell'America rurale in cui gli ostacoli, per lei, si sono tramutati in opportunità, grazie anche a un talento fuori del comune («la vendetta perfetta è la conoscenza», scrive, perché essa è il vero potere); per Violet Rue, quella stessa America è un luogo di violenza e di solitudine, dove il riscatto è forse possibile, ma comporta un prezzo altissimo.
C'è molta politica, ci sono posizioni ideologiche nette, nel romanzo, ma la storia di Violet Rue prevale, l'antica storia di un'eroina tragica, divisa tra famiglia e identità, tra i valori imposti e i propri, tra il destino scritto dagli altri e quello che ciascuno cerca di costruirsi da sé, attraverso una quantità di sofferenza che, a volte, sembra insopportabile.
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